Cadaveri ammassati e case bruciate: viaggio nel Karabakh dopo l’armistizio

La sera del 9 novembre il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato al suo paese di aver firmato un accordo con Russia e Azerbaigian per cessare il fuoco in Nagorno Karabakh. Gli scontri erano iniziati la mattina del 27 settembre. Le vittime totali sono state oltre quattromila. L’accordo è stato siglato dopo la presa di Shushi, il secondo più grande insediamento nella regione. Dopo l’armistizio, a Yerevan sono scesi in migliaia per chiedere le dimissioni di Pashinyan, reo, secondo le accuse, di aver tradito il proprio popolo.

Il giornalista Luca Steinmann (le foto di questo articolo sono state scattate da lui) è stato sul fronte nelle ultime settimane della guerra e ha seguito alcuni dei momenti più significativi dell’epilogo del conflitto: la ritirata armena, i bombardamenti sulla capitale Stepanakert, l’evacuazione di massa dei civili armeni, le proteste degli esuli a Yerevan. E ancora, lo scambio dei cadaveri, l’arrivo dei russi e l’ultimo pellegrinaggio di massa al monastero di Dadivank per l’ultima preghiera prima che venga consegnato agli azeri. Tatjana Đorđević Simic ha intervistato Luca Steinmann per Frontiere News.


Luca, come sei entrato in Nagorno Karabakh?

Siamo partiti da Yerevan, la capitale dell’Armenia, per raggiungere la città di Goris da dove avremmo dovuto imboccare il corridoio di Lachin, cioè il passaggio che collega l’Armenia al Nagorno Karabakh. Da Goris non abbiamo però potuto proseguire perché proprio in quelle ore l’esercito azero aveva lanciato un attacco per conquistare lo stretto. Il giorno dopo abbiamo allora preso un’altra strada più a nord che attraversando i monti del Kelbajar ci ha condotti fino a Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh. Ci siamo trovati in una città fantasma.

La maggior parte dei civili era fuggita e per le strade non si incontrava quasi nessuno. I pochi rimasti vivevano in bunker sotterranei per ripararsi dai bombardamenti. Gli unici rumori che si sentivano erano quelli dei bombardamenti sulla città e le esplosioni dei bombardamenti provenienti dai vicini campi di battaglia, soprattutto dalla vicina città di Shushi. Nel corso dei giorni le esplosioni si facevano sempre più vicine, segno che la linea del fronte stava arretrando verso di noi. Finché il 7 novembre le autorità armene hanno ordinato un’evacuazione generale. Siamo precipitosamente stati fatti salire su dei pulmini insieme agli ultimi civili rimasti e durante la notte siamo stati evacuati in Armenia. Probabilmente Stepanakert sarebbe caduta se due giorni dopo non fosse stato firmato l’accordo di pace.

Luca Steinmann in Nagorno Karabakh

In un reportage realizzato insieme a Filippo Rossi per Sky hai intervistato dei giovani soldati armeni che difendevano le loro case a Shushi. Che cosa vi hanno raccontato? Cosa spinge così tanti ragazzi giovani a combattere?

Mi sembra che la memoria per il genocidio armeno sia il grande collante che spinge tante persone così diverse a combattere per il Nagorno Karabakh. Quello armeno è un popolo sparso in tutto il mondo. Sono tre milioni gli armeni che vivono in Armenia e undici milioni quelli della diaspora che generalmente sono profondamente integrati nei paesi in cui vivono. Si tratta quindi di un popolo molto eterogeneo ma profondamente unito dal ricordo dei drammi del passato. Non soltanto dal genocidio del 1915 ma anche delle stragi e dalle deportazioni che gli armeni, come anche gli azeri, hanno subito con il primo conflitto tra Armenia e Azerbaigian, sempre per il Nagorno Karabakh, nei primi anni ‘90.

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Quest’ultima guerra ha dunque implicazioni emotive ed identitarie molto profonde. Il Nagorno Karabakh è considerato terra ancestrale dagli armeni, perderla significa perdere uno dei principali collanti che tiene insieme tutto un popolo sparso per il mondo. Inoltre dopo questa guerra oltre centomila armeni devono abbandonare le proprie case. È un vero e proprio esodo che riapre di nuovo il ricordo del genocidio.

Di fronte a questa situazione si sono mobilitati armeni da tutto il mondo, molti dei quali sono andati sul territorio per dare il proprio contributo. Chi combattendo, chi in veste di medico o infermiere, chi come semplice attivista. Ho incontrato per esempio un medico armeno-americano che era lì come volontario per medicare i soldati. Dei combattenti armeni venuti dalla Russia e anche tanti attivisti europei e americani.

Che cosa hai fatto una volta che sei stato evacuato in Armenia?

Sono stato nella capitale Yerevan per qualche giorno. Due giorni dopo il mio arrivo l’Armenia ha firmato la resa e di conseguenza sono scoppiate le proteste in città che sono andate avanti per diversi giorni. Ho avuto l’impressione di essere di fronte al grande shock collettivo di un intero popolo che non si capacitava della sconfitta. Tra chi protestava c’erano molti esuli dal Nagorno Karabakh, ma anche tanti soldati e cittadini comuni che chiedevano le dimissioni e l’esilio del premier Nikol Pashinyan, colpevole di avere accettato l’accordo. In molti avrebbero voluto continuare a combattere e si chiedevano per cosa fossero morti i circa 2000 soldati uccisi in battaglia. Al contempo però c’erano tante altre persone che litigavano con i manifestanti e sostenevano il premier, segno di una grande divisione interna.

Che situazione hai trovato quando sei tornato per la seconda volta a Stepanakert?

Ho trovato una città ancora più spettrale rispetto a prima, in cui c’erano solo soldati armeni, russi e qualche giornalista. L’unico posto in cui si poteva dormire era un albergo abbandonato, senza personale né servizi, riscaldamento o acqua calda e con internet che andava e veniva. Non c’era la possibilità di cucinare né di comprare del cibo caldo ma solo di mangiare degli snack oppure cibo pronto che avevamo portato con noi da Yerevan. Da Stepanakert abbiamo poi preso la strada che salendo portava verso Shushui. Ai lati c’erano molti cadaveri di giovani soldati azeri mentre quelli armeni erano già stati portati via. Qualche ora dopo i russi e la Croce Rossa Internazionale hanno mediato uno di scambio di cadaveri tra le due parti. I corpi degli azeri sono stati raccolti, caricati su dei furgoncini e portati verso Shushi. Prima di venire caricati  venivano controllate le tasche dei cadaveri. Uno di questi soldati teneva una lettera macchiata di sangue nella tasca all’altezza del cuore. Era stata scritta probabilmente da un parente e recitava:

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“Ciao soldato, non ti chiedo come stai. Sono sicuro che stai bene. L’umore di una persona che combatte per la patria non può essere diverso. Se tu ci sei, c’è la patria. Se c’è la patria, ci sei tu. Nessuno può cambiare la tua strada, la tua santa causa. Né la pioggia né la neve possono mai farti stancare. Perché sappi che anche la tua patria ti difende, come tu la difendi. Non preoccuparti per noi. Siamo onorati di te.”

Hai partecipato all’ultima preghiera degli armeni al monastero di Dadivank prima che lo stesso venisse consegnato agli azeri. Come è andata?

Il monastero di Davidank si trova nella regione del Kalbajar, che a seguito dell’accordo di pace verrà ceduta dall’Armenia all’Azerbaigian. Questa regione non è mai stata persa militarmente dagli armeni che pertanto si ritrovano letteralmente a consegnare al nemico un territorio che considerano proprio. Appena la cessione è stata annunciata, migliaia di armeni si sono precipitati a Dadivank per le ultime preghiere. Centinaia di famiglie hanno portato lì i propri figli per farli battezzare. C’era una grande tristezza, da parte di alcuni anche molta rabbia. In realtà non è ancora chiaro cosa ne sarà in futuro del monastero. Alcune persone che vivono lì, a partire da padre Ter Hovhannes, hanno annunciato che non se ne andranno. Nelle ultime ore sono arrivati sul posto alcuni peacekeeper russi che forse garantiranno i pellegrinaggi degli armeni anche dopo che il Kelbajar sarà passato agli azeri. Per ora mi sembra che ci sia ancora molta incertezza. Quello che è certo è che negli ultimi giorni decine di migliaia di armeni hanno lasciato il Nagorno Karabakh. In molti prima di partire hanno dato fuoco alle proprie case per evitare che vengano abitate dagli azeri quando arriveranno.

Quanto reggerà questo cessate il fuoco?

Anche se Pashinyan desse ordine di tornare a combattere, mi sembra che in questo momento le autorità armene abbiano capacità decisionale limitata. Ormai sono entrati in gioco i loro protettori russi, che hanno grande potere. Dopo qualche giorno a Yerevan sono tornato a Stepanakert e ho assistito all’arrivo dei peacekeeper russi.

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Sono arrivati, hanno piazzato i loro posti di controllo agli svincoli strategici della città e sulla vicina collina di Shushi e hanno iniziato a gestire loro la situazione, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le vicinissime truppe azere. I soldati armeni erano lì a guardare e nonostante vedessero le bandiere azere sventolare all’orizzonte non potevano attaccare altrimenti sarebbero stati fermati dai russi stessi.

Secondo te la guerra tra Armenia e Azerbaigian si potrebbe descrivere come parte di un conflitto nascosto tra Mosca e Ankara?

La Russia in questo momento ha tutto l’interesse a mantenete la situazione attuale. Per Mosca è molto importante avere una presenza militare diretta nel Nagorno Karabakh, dunque nel cuore del Caucaso. Che è una regione storicamente sotto la propria influenza, che sta però diminuendo a favore di quella della Turchia che manderà presto le proprie truppe direttamente sul territorio.

Sostenendo l’Azerbaigian in questa guerra, Ankara ha messo un piede alle porte della Russia e si aggiudica l’utilizzo di un corridoio attraverso Armenia e il Nagorno Karabakh che collega la Turchia direttamente all’Azerbaigian e al Mar Caspio. Inoltre attraverso il Nagorno Karabakh Turchia e Azerbaigian potranno collegare le riserve azere di olio, di greggio e in generale di gas e di altri idrocarburi presenti nel Mar Caspio con il Mar Nero e poi con l’Europa senza passare attraverso la Russia.

Dal punto di vista geopolitico la Turchia esce quindi molto rafforzata da questa guerra e la Russia deve tenerne conto. Mosca non si può permettere di indietreggiare dal punto di vista militare altrimenti rischierebbe di diventare veramente subalterna rispetto alla Turchia. Credo quindi che la Russia farà tutto il possibile per mantenete le posizioni militari attuali e che quindi imporrà all’Armenia lo status quo attuale.


Profilo dell'autore

Tatjana Đorđević Simic

Tatjana Đorđević Simic
Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano

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