L’Italia ha perso la grande occasione di dire addio alle armi nucleari USA sul proprio territorio

In Italia ci sono almeno 40 testate nucleari. Non sorprende quindi che non abbia firmato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, appena entrato in vigore. Eppure l’opinione pubblica è contraria e altri Paesi, come il Canada, ci dicono che si può far parte della NATO pur essendo contrari al nucleare. Articolo di Ilaria Cagnacci.

Lo scorso 22 gennaio è entrato in vigore il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), il primo trattato applicabile a livello globale che proibisce categoricamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, il trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. L’ultimo paese a ratificare il trattato è stato l’Honduras il 24 ottobre 2020 con il quale è stata raggiunta la soglia di 50 Paesi firmatari necessaria per la sua entrata in vigore.

Nessuna delle potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) ha firmato il trattato e soltanto sei stati europei lo hanno ratificato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino, Liechtenstein, Città del Vaticano. 

L’Italia non ha né firmato né sottoscritto il trattato così come Germania, Belgio e Paesi Bassi che, come il nostro Paese, condividono accordi di ‘nuclear sharing’ con gli Stati Uniti.

Sul nostro territorio nazionale si stima la presenza di 40 testate nucleari di cui 20 presso la base di Ghedi (Brescia) e le restanti 20 nella base di Aviano (Pordenone) mentre negli altri Paesi europei se ne stimano circa 20 a testa. Non si può parlare di numeri certi in quanto in linea con la politica della NATO “né confermare né smentire” la presenza di ordigni nucleari l’Italia si avvale del vincolo di riservatezza e secondo il ministero della Difesa, più volte interpellato a rilasciare informazioni a riguardo, si tratterebbe di informazioni che i cittadini italiani non sono tenuti ad avere. Gli accordi bilaterali con gli USA non solo prevedono ‘la condivisione nucleare’ bensì anche una partecipazione attiva in caso di guerra, circostanza nella quale i nostri cacciabombardieri dovrebbero essere pronti a sganciare queste armi. Molti commentatori non esitano a dire che questa situazione va chiaramente in contrasto con quanto previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare che l’Italia firmò e ratificò il 2 maggio 1975 e dove si impegnò alla via del disarmo, della distensione internazionale e della pace.

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Il nucleare nel mondo

Anche se il numero di armi nucleari nel mondo è diminuito in modo significativo dopo la Guerra Fredda – da un picco di circa 70.300 nel 1986 si è passati ad una stima di 13.410 nel 2020 – risulta allarmante il fatto che a partire dagli anni ’90 il processo di disarmo abbia subito un critico rallentamento e che oggi diversi paesi nucleari decidano di investire sul mantenimento degli arsenali e su nuove armi nucleari. Ad oggi Russia e Stati Uniti detengono oltre il 90% dell’arsenale nucleare mondiale con circa 4.000 testate a testa, seguiti da Gran Bretagna, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Nord Corea.

Scorte globali di armi nucleari, 2018 [fonte: sipri]

È bene sottolineare che il TPNW non proibisce agli Stati firmatari di partecipare ad alleanze militari come la NATO. Il problema risiede nel fatto che a causa di particolari circostanze politiche e strategiche, la NATO non si è mai schierata a favore della proibizione di armi e che gli USA hanno sempre esercitato forti pressioni sui loro alleati per non partecipare a questo tipo di negoziati. Secondo una ricostruzione dell’Associated Press, l’amministrazione Trump avrebbe scritto a diversi paesi che avevano già ratificato il Trattato per spingerli a ritirarsi.

 

L’opinione pubblica è contraria

Nel 2019, l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN) commissionò alla società britannica di data analysis YouGov un sondaggio in Italia e negli altri tre paesi europei che ospitano testate nucleari statunitensi. La popolazione, in tutti e quattro i casi, si espresse a favore della rimozione delle testate nucleari dal proprio territorio con un consenso molto alto (60%-70%). Nel caso specifico dell’Italia, “7 intervistati su 10 sono favorevoli all’adesione dell’Italia al Trattato contro le armi nucleari, 3 su 5 chiedono che le testate statunitensi vengano rimosse dal nostro territorio e per il 66% i cacciabombardieri F-35 in corso di acquisizione non dovrebbero possedere la capacità di sganciare le (nuove) bombe nucleari USA”.

Per l 72% degli intervistati, gli istituti finanziari non dovrebbero investire in società coinvolte nella produzione delle armi nucleari [fonte: ICAN]
Il 70% degli intervistati è favorevole all’adesione al Trattato ONU di proibizione delle armi nucleari [fonte: ICAN]
Per il 60% degli intervistati si dovrebbero eliminare dal nostro territorio le testate nucleari statunitensi [fonte: ICAN]
Il 66% degli intervistati ritiene che i cacciabombardieri attualmente in acquisizione (gli F-35) non dovrebbero possedere la capacità di sganciare bombe nucleari [fonte: ICAN]

Il prezzo da pagare

Il rapporto di Greenpeace “Il prezzo dell’atomica sotto casa”, consultabile in fondo a questo articolo, lo dice chiaro: “un attentato contro le basi militari di Aviano o Ghedi potrebbe provocare dieci milioni di vittime”. La deflagrazione nucleare però potrebbe essere innescata anche da un incidente, eventualità che secondo alcuni esperti sul nucleare dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) e della Federazione degli scienziati americani (FAS) non sarebbe neanche tanto remota date le diverse segnalazioni inerenti a problemi di sicurezza nei caveau nucleari europei. Il problema della sicurezza della basi europee emerse già nel 2008 quando un rapporto del pentagono segnalò che la maggior parte dei siti europei contenenti armi nucleari statunitensi non soddisfavano gli standard di sicurezza stabiliti.

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Oltre a mettere a repentaglio la sicurezza di milioni di cittadini i costi del ‘nuclear sharing’ sono molto elevati. Secondo un rapporto di Milex stilato nel 2018 le spese sostenute dall’Italia nell’ambito di questi accordi oscillano tra i 20 milioni ai 100 milioni di euro l’anno. A queste cifre andrebbero aggiunti i costi per sostituire i vecchi Tornado impiegati a Ghedi con i famigerati F-35, la stessa Ghedi dove ad ottobre del 2020 sono iniziati anche i lavori per realizzare la principale base operativa dei caccia F-35A armati di bombe nucleari. Da non dimenticare che l’estate scorsa, in piena emergenza Coronavirus, il colosso della difesa statunitense Lockheed Martin ha ricevuto da parte del governo italiano un ordine da 368 milioni di dollari per 6 F-35 da aggiungere ai 15 già acquistati.

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La sicurezza non è il nucleare

Oggi più che mai, in un contesto così difficile, bisogna chiedersi che cosa sia la sicurezza per i cittadini. Se questa situazione di pandemia globale ha reso evidente qualcosa, è che oggi la sicurezza non è legata all’uso delle armi, bensì alle condizioni di lavoro, salute, ambiente e vita delle persone. L’alternativa esiste ed è quella del disarmo e della non violenza; oggi la resistenza non violenta è una dottrina filosofica e politica a cui si richiamano non solo movimenti di opposizione alla guerra, ma anche gruppi che mirano più in generale al cambiamento sociale e ai quali dobbiamo moltissimo per il raggiungimento di questo accordo storico.

Meritevoli di menzione in Italia sono la Rete Italiana Pace e Disarmo (di cui fanno parte diverse realtà locali) e Senzatomica, che da anni fanno pressione sul nostro governo affinché il Paese intraprenda la via del disarmo e che in questi giorni hanno rilanciato con forza la campagna “Italia, ripensaci”, nata nel 2016. Le armi non uccidono soltanto in guerra; anche quando non utilizzate, sottraggono le risorse necessarie al soddisfacimento dei bisogni primari delle persone. Per questo motivo, è estremamente importante – specialmente in un momento come questo – che si crei una nuova coscienza collettiva sul tema del disarmo.

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In copertina: Lanterne galleggianti vicino al Parco della Pace di Hiroshima in occasione dell’anniversario del bombardamento atomico statunitense che ha cancellato la città giapponese durante la seconda guerra mondiale. Foto di Tim Wright / ICAN


Profilo dell'autore

Ilaria Cagnacci

Ilaria Cagnacci
Appassionata di Balcani, sono attivista per i diritti umani con Amnesty International e seguo i movimenti dal basso. Dopo essermi laureata in Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo a Perugia, mi sono specializzata in Democrazia e Diritti Umani nel Sud Est Europa a Sarajevo. Credo fermamente nella possibilità e nella necessità di immaginare e realizzare un sistema diverso da quello attuale che ha generato una ricchezza enorme per pochi a discapito dei molti e a danno del pianeta. Su questa linea, mi sono interessata alle lotte per il bene comune, o commons, per il potere trasformativo che queste lotte possono avere, non solo nel rimodellare la nostra relazione con la natura, ma anche all'interno delle comunità stesse innescando nuove forme alternative di cooperazione e solidarietà. Attualmente mi occupo principalmente di tematiche legate all’ambiente, ed in particolare ai conflitti ambientali nei Balcani, perché un ambiente salubre è parte integrante e fondamentale per il pieno godimento dei diritti umani. Sono convinta che tutti gli esseri viventi sulla terra debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità per difenderli, per questo motivo mi definisco anche un'attivista per i diritti della natura.

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