Perché si parla di genocidio del popolo guaraní

Per i guaraní la terra è l’origine di tutta la vita. Ma da oltre 500 anni le incursioni violente di ‘civilizzatori’, allevatori ed estrattivisti hanno devastato il territorio in cui vivono e quasi tutta la loro terra è stata rubata. Intanto, mentre i bambini guaraní muoiono di fame, negli ultimi anni centinaia di leader e attivisti sono stati assassinati. Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia: si tratta di uno sterminio annunciato.

Testo di Riccardo Bottazzo


Yvy è malata. Yvy, che nella lingua guaraní significa la “Nostra Terra”, soffre per la crudeltà e la mancanza di rispetto degli uomini che la abitano, così come un corpo soffre se è attaccato da un virus. Ñande Ru Guasu, il Nostro Grande Padre, creatore del cielo, della foresta e dei corsi d’acqua, prima di ritirarsi in un luogo sperduto, inaccessibile anche alla stessa fantasia dei suoi figli, aveva affidato Yvy al popolo guaraní e ai suoi Paí, gli sciamani, affinché si prendessero cura di lei. La terra donava la vita ai suoi figli. I suoi figli, rispettando il Teko Porã, il corretto modo di vivere, amavano e restituivano vita alla terra. Così è stato per tanto tempo. Poi è arrivato l’uomo bianco.

Il genocidio che si sta compiendo verso il popolo guaraní è cominciato con il furto della loro terra in nome di quel processo chiamato “sviluppo economico capitalista” i cui nefasti effetti, non ultimi i cambiamenti climatici, li stiamo soffrendo anche noi che viviamo dall’altra parte del globo. Comprare, recintare, devastare, mercificare la terra, l’acqua, l’aria, il vivente per un indigeno guaraní, più che una ingiustizia o una bestemmia, è un’assurdità. “Sappiamo che vogliono la nostra terra. Sappiamo che sono pronti ad ucciderci per questo – ha spiegato in una intervista il cacique Ladio Veron –. Non capiamo però lo scopo. Se la terra muore, moriranno tutti gli uomini e quindi anche loro. È il demone del male che guida le loro azioni. Perché non se ne rendono conto?”

Siamo nel sud del Brasile, nello Stato del Mato Grosso, ai confini col Paraguay. All’arrivo dei primi colonizzatori, il popolo guaraní fu uno dei pochi dell’Amazzonia a non sottomettersi a spagnoli e portoghesi e a rifiutare gli insegnamenti dei gesuiti al loro seguito. I guaraní kaiowa, uno dei tre sottogruppi linguistici in cui si dividono, decisero di ritirarsi nella foresta. Fu la decisione giusta. Degli altri gruppi indigeni che scelsero di venire a patti con i cosiddetti conquistadores – ma sarebbe più corretto chiamali “invasori” – oggi non è rimasto neppure un vocabolario.

E per qualche secolo, la grande foresta amazzonica offrì rifugio al popolo guaraní. Quelle terre difficili non solo da coltivare o da vivere ma anche da attraversare, all’inizio, non erano appetibili per l’uomo bianco. Ma lo “sviluppo economico” è una bestia che non è mai sazia. La terra ancestrale, da disboscare per monetizzare il legname e poi da adibire a culture intensive, faceva sempre più gola agli uomini bianchi che si stringevano ai confini delle riserve. I guaraní furono relegati in spazi sempre più stretti. Le grandi foreste venivano abbattute per favorire le monoculture della canna da zucchero e dell’etanolo che regalavano immense ricchezze a pochi latifondisti, sfruttamento e umiliazioni ai lavoratori, fame, miseria e disperazione a tutti gli indigeni.

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Nel 2010, una legge dello Stato brasiliano deportò definitivamente i guaraní in sorte di “riserve indigene” che altro non erano che delle vere e proprie baraccopoli. Lo scopo dichiarato era quello di “preservare la popolazione indigena e la sua cultura” ma il vero obiettivo era quello di rubare loro anche le ultime terre mercificabili dai latifondisti o dalle multinazionali dell’estrattivismo, il nuovo business, che avevano individuato nell’Amazzonia gli ultimi giacimenti fossili di un pianeta oramai quasi prosciugato di ogni sua risorsa.

I guaraní furono allontanati a forza dai loro villaggi e rinchiusi in favelas senza accesso all’acqua potabile, senza assistenza medica, senza l’istruzione dei bianchi e privati anche dei luoghi sacri in cui veniva tramandata la tradizione indigena. Il popolo guaraní non aveva più una Yvy con la quale vivere e rapportarsi.

L’esodo del 2010 era stato accuratamente preparato da un decennio di inaudite violenze commesse nei loro confronti da milizie private, e talvolta anche militari, pagate dai latifondisti con l’appoggio incondizionato dei partiti di destra e senza troppo opposizione da quelli di sinistra. Stupri, torture, sparizioni forzate, rapimenti di bambini, omicidi di oppositori, incendi di interi villaggi, distruzione dei luoghi e dei beni sacri con i quali gli sciamani guaraní tramandavano la cultura indigenza.

Marcos Veron, padre del sopracitato Ladio Veron, e tantissimi altri rappresentanti del popolo guaraní che avevano avuto il coraggio di denunciare al mondo l’assalto dei latifondisti al suo popolo furono uccisi barbaramente. E dove non arrivava la violenza, arrivava l’alcol. I lavoratori guaraní venivano pagati, sino a che riuscivano a lavorare, con bottiglie di rum di scarsa qualità creando una dipendenza che non aveva cura. Secondo la denuncia di associazioni internazionali per i diritti umani, i latifondisti arrivarono anche a distribuire, con la connivenza del governo federale, giocattoli contaminati da virus influenzali, morbillo e vaiolo, infettando così volutamente interi villaggi. E aids attraverso prostitute infette non indigene (Cataleta, La violenza genocidaria oltre la dimensione culturale. Il caso dei guaraní kaiowà in Maniscalco e Pellizzari, Deliri culturali, L’Harmattan italia, 2016).

Secondo un rapporto del Cimi, il Conselho Indigenista Missionário, tra il 2003 ed il 2013 più di 300 leader indigeni furono assassinati. Altri rapporti di organizzazioni non governative puntano il dito sulla polizia federale e la polizia di Stato che in più occasioni si sono messe al servizio dei proprietari terrieri, i quali avrebbero anche corrotto membri del governo e della Corte suprema federale. Quasi tutti i procedimenti penali infatti, sono stati archiviati e le inchieste volte alla individuazione dei responsabili delle violenze non hanno mai portato a nulla.

Era la prova generale di uno sterminio annunciato. Uno sterminio che il mondo intero sta rimanendo, muto, a guardare.

A ben vedere, quando nel 2019 arrivò al potere Jair Messias Bolsonaro, la porta per il genocidio era già spalancata. Il nuovo presidente del Brasile ci mise del suo e, con buona volontà, si fece carico di mantener tutto quello che aveva promesso in campagna elettorale: smantellò ogni forma di assistenza alle popolazioni indigene, coprì ed incoraggiò le violenze delle milizie, supportandole con l’impiego di forze militari federali, legalizzò le attività illecite che le multinazionali dell’estrattivismo avevano già avviato in aree protette, abrogò le leggi che tutelavano i popoli nativi, incrementò la deforestazione, ignorò semplicemente la Dichiarazione di Brasilia che protegge le minoranze indigene.

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Senza timore di essere tacciato di razzismo, Bolsonaro ha più volte alluso alla presunta inferiorità dei popoli indigeni perché osano opporsi al dio dello “sviluppo economico”. Se i brasiliani sono poveri, spiega l’ineffabile Bolsonaro, la colpa è tutta degli indigeni che impediscono di monetizzare le ricchezze dell’Amazzonia. Il nuovo ordine mondiale, la bufala dei cambiamenti climatici, le potentissime lobby internazionali per i diritti dell’uomo… tutto complotta a favore dei guaraní. Nel 2005, il futuro presidente del Brasile affermò: “Gli indigeni non parlano la nostra lingua, non hanno denaro né cultura. Sono soltanto popoli nativi. Come hanno fatto a ottenere il 13 per cento del nostro territorio nazionale?” Una prospettiva che fa eco a quanto sottolineò nell’aprile del 1998, da parlamentare: “È davvero un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare gli indigeni”.

Greenpeace e le altre organizzazioni che difendono l’ambiente e il diritto alla terra dei popoli originari, sono testualmente bollate come “porcheria e spazzatura” e accusate di appiccare incendi solo per il piacere di affibbiare la colpa a lui ed ai suoi amici che, al contrario, si impegnano per il bene dei brasiliani. Quelli veri.

Possiamo parlare di un vero e proprio genocidio nei confronti del popolo guaraní? Lo abbiamo chiesto all’avvocata Maria Stefania Cataleta, impegnata nella difesa dei diritti umani e ammessa al patrocinio innanzi alle giurisdizioni penali internazionali come la Corte Penale Internazionale. La domanda non è retorica. Secondo la Convenzione di New York del 1948, il riconoscimento di un genocidio in atto implica l’obbligo di intervenire a livello internazionale perché si tratta di un crimine sottoposto alla Legge delle Nazioni che esula dalla competenza delle giurisdizioni interne.

“Il genocidio è essenzialmente un crimine di Stato perché viene perpetrato dagli stessi vertici politici e militari della nazione che, in primis, dovrebbe giudicarli e condannarli – spiega l’avvocata Cataleta –. Simili circostanze assottigliano notevolmente la sfera di punibilità dei responsabili di genocidio e rende difficile un intervento esterno. Alla base del genocidio c’è sempre uno Stato totalitario che innesca lo sterminio di massa sulla base di parametri oramai consolidati e studiati. Il regime attualmente in vigore in Brasile sembra sfuggire a parametri democratici e per questo favorisce politiche di emarginazione ed estinzione dei popoli indigeni dell’Amazzonia. La mia opinione è quindi che si possa parlare senza mezzi termini di genocidio nei confronti del popolo guaraní”.

Quali sono questi parametri che ritroviamo in tutti i genocidi accaduti su questa Terra?

“La disumanizzazione, in primis. Vale a dire la negazione all’altro nella classificazione di umano; tale è il meccanismo psicologico che facilita la rimozione di ogni barriera simbolica e agevola l’azione distruttrice. Il processo di disumanizzazione separa l’essere umano dall’altro, visto come estraneo e temibile, e giustifica l’omicidio di massa. Ma il processo genocidario non si arresta qui poiché necessita di un supporto probatorio atto a corroborare l’intento distruttivo. Mi spiego: alla base di un genocidio c’è sempre un meccanismo di proiezione che vede nell’altro il responsabile delle debolezze del carnefice e la sua messa in pericolo. Il genocidio diventa allora una sorta di legittima difesa. Si innesta una teoria del complotto, che è una costante di tutti i regimi totalitari, che considerare una minoranza come l’origine di tutti i suoi mali in una sorta di messianismo delirante”.

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Una descrizione che combacia in pieno con le farneticazioni di Bolsonaro.

“Già. Confinati nella foresta amazzonica, lontani dal mondo così detto ‘civilizzato’, i popoli indigeni sono considerati incapaci non solo di integrarsi e di partecipare allo sviluppo sociale, ma addirittura accusati di ostacolarlo. Ecco il meccanismo attraverso il quale se ne giustifica l’eliminazione. L’uso offensivo di pesticidi, battericidi, medicamenti e veleni, che sta uccidendo l’Amazzonia e i suoi popoli originari, si colloca esattamente in quest’ottica purificatrice. La vittima è vista come un essere malato da ‘guarire’ a tutti i costi o come animale infimo e disgustoso, come il ratto nella retorica nazista o la blatta in quella del genocidio ruandese. Quello che sta accadendo ai guaraní, lo abbiamo già visto molte volte nella storia”.

E non abbiamo imparato niente.


In copertina la guerriera guaraní Valdelice Veron, figlia di Marcos Veron e sorella del cacique Ladio Veron. [catarinas.info]

Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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