Canarie, un arcipelago-prigione lungo la rotta più pericolosa d’Europa

Negli ultimi due anni le isole spagnole sono diventate una delle principali porte d’accesso per gli africani diretti in Europa, anche a causa della pandemia. Intanto, secondo le associazioni, nelle isole i migranti sono detenuti in condizioni disastrose e privati dei diritti di base

Articolo di Ilaria Cagnacci. Immagine in copertina tratta dal rapporto CEAR

Quando si parla di migrazioni verso l’Europa spesso si tende a ridurre il fenomeno alle rotte balcanica e mediterranea. Tuttavia, esiste una terza rotta battuta da migliaia di persone in fuga da conflitti, violenze e difficoltà economiche. Si tratta della la rotta atlantica, crocevia tra l’Africa Occidentale e l’arcipelago delle Isole Canarie, considerato il passaggio marittimo più pericoloso per raggiungere l’Europa a causa dell’alto rischio di naufragi e delle grandi distanze da percorrere.

La rotta verso l’arcipelago spagnolo non è una ‘nuova rotta’: si tratta di un canale utilizzato da migliaia di migranti già dalla fine degli anni ‘90, quando vennero registrati i primi naufragi. Dopo essere rimasta perlopiù inattiva dalla crisi dei cayucos del 2006 (dal nome dei pescherecci comunemente utilizzati in Senegal e in Mauritania), quando 31.000 richiedenti asilo e migranti effettuarono la traversata, negli ultimi due anni l’arcipelago spagnolo sta diventando una delle porte d’accesso preferenziali per i migranti diretti verso l’Europa.  

La gestione del flusso migratorio nelle Canarie è tra le più controverse. Lo scorso 7 aprile la Commissione spagnola di soccorso ai rifugiati (CEAR) ha presentato un report in cui denuncia che le Isole Canarie, con l’aumento degli arrivi, stiano diventando un polo di “situazioni disumane” in violazione delle stesse leggi spagnole, attraverso “arresti e privazioni di libertà senza protezione legale, mancanza di assistenza legale ai migranti e, per questo, mancanza di attenzione per i bambini che viaggiano da soli, potenziali vittime di tratta o possibili richiedenti asilo”.

A causa di questa situazione, secondo la CEAR si sono verificati due fenomeni opposti. Da un lato è stata trasmessa ai cittadini un’immagine di perdita di controllo da parte delle istituzioni del fenomeno migratorio, dando luogo alla diffusione di messaggi xenofobi ingiustificati. Allo stesso tempo, questi stessi eventi hanno dato vita a reti di solidarietà cittadina per accompagnare e sostenere i migranti, “dimostrando ancora una volta lo spirito di accoglienza degli isolani”.

La portata del fenomeno: +756%

L’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) riporta che lo scorso anno, tra gennaio e dicembre, 23.023 individui, la maggior parte dei quali originari del Marocco, Senegal e Mali, hanno raggiunto le Isole Canarie segnando un incremento del 756% rispetto allo stesso periodo del 2019. Ad un’esponenziale crescita del numero delle partenze ha corrisposto un altrettanto allarmante aumento del numero di decessi registrati, balzato a 850. L’OIM però specifica anche che i dati sulla rotta marittima dell’Africa occidentale rimangono approssimativi perché attualmente non esiste un approccio coerente o armonizzato per quanto riguarda il monitoraggio del numero effettivo delle partenze e dei naufragi che spesso non vengono denunciati.

4 aprile 2020: operazione di soccorso dopo lo sbarco di un peschereccio con 72 migranti al Puerto de los Cristianos, Tenerife. A bordo i soccorritori hanno trovato una persona deceduta e tre in gravi condizioni. EFE/Miguel Barreto

I push factors

I motivi per cui le persone decidono di intraprendere questa rotta sono molteplici. Sicuramente uno dei primi fattori da tenere in considerazione è la pandemia e il conseguente aggravamento della situazione economico-sociale che ha spinto molti giovani africani a partire dai Paesi di origine in cerca di nuove opportunità in Europa.

Le condizioni che spingono queste persone a migrare sono anche di tipo ambientale, il Continente infatti è il più minacciato dagli effetti dei cambiamenti climatici globali. Guardando soltanto al Marocco in alcune zone l’acqua è diventata così rara che spesso questa viene dirottata dai terreni agricoli alle famiglie lasciando i campi completamente asciutti. Secondo il World Water Resource il Paese risulta tra i 22 a più alto rischio di scarsità idrica e destinato, entro il 2025, ad andare incontro a un aumento del 50% dello stress idrico.

Le ragioni sono anche di tipo geopolitico. In Senegal accordi di pesca assolutamente svantaggiosi per i locali hanno comportato quasi l’esaurimento delle riserve ittiche al largo delle coste. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, fino al 90% delle riserve ittiche sono state sottoposte ad uno sfruttamento eccessivo e stanno quasi per terminare a causa delle numerose flotte straniere provenienti soprattutto dalla Cina, dall’Europa e dalla Russia che si aggirano nei mari al largo dell’Africa occidentale e che spesso operano in situazioni di assoluta illegalità.

Infine, non dimentichiamoci delle crisi e delle guerre senza fine come quella che da un decennio ormai si sta consumando in Mali e di quelle dimenticate come quella in Burkina Faso che sta attraversando una crisi senza precedenti, del terrorismo che continua a flagellare numerosi Paesi africani e dell’oppressione e dell’assenza di libertà che in tempi di pandemia non hanno fatto altro che intensificarsi.

Le responsabilità europee e la risposta spagnola

La riapertura di questo canale è strettamente connessa alle politiche europee in materia di migrazione.  L’aumento del numero di persone che decide di intraprendere questa rotta, infatti, è il risultato diretto sia del rafforzamento della frontiera a nord del Marocco, proprio nel 2020 le barriere delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla sono state innalzate di ulteriori quattro metri rendendole di fatto invalicabili, sia di una progressiva militarizzazione delle acque del Mediterraneo e della maggior cooperazione con Paesi terzi come la Libia dove le note sistematiche violazioni dei diritti umani hanno fortemente disincentivato il transito attraverso quella che ormai si può definire una vera e propria prigione a cielo aperto.

In risposta all’aumento delle partenze, il governo spagnolo ha provveduto al rimpatrio dei migranti stabilendo accordi bilaterali con i Paesi d’origine. Tra questi la Mauritania dove l’accordo di riammissione prevede anche le possibilità di rimpatriare nel paese qualsiasi migrante partito dalle coste del Paese africano, indipendentemente dalla nazionalità. Il governo sta inoltre progettando di dispiegare ulteriori mezzi di controllo aerei e marittimi per reprimere la migrazione irregolare e ha recentemente annunciato una nuova strategia “Africa Focus 2023”che vedrà maggiori investimenti e legami istituzionali più stretti con vari paesi africani.

Diritti violati

Quello che sta succedendo nelle Canarie è la riproduzione della logica delle isole frontiere così come nel caso delle isole greche portate letteralmente al collasso. Secondo quanto riportato da Human rights watch, uno dei pochi osservatori indipendenti che ha avuto la possibilità di visitare il molo di Arguineguín nella Gran Canaria dove l’estate scorsa sono state stipate migliaia di persone in un accampamento improvvisato, a tutti gli intervistati era stato dato un ordine di espulsione indipendentemente dalle loro circostanze personali, spesso senza informazioni chiare in una lingua che potessero capire o senza avere accesso a un avvocato.

Il diritto alla dignità, il diritto alla vita e all’asilo, sono diritti sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e nella Dichiarazione universale dei diritti umani, eppure, questi stessi diritti sono sempre i primi ad essere sacrificati dai governi europei in nome della ‘sicurezza’. La riapertura della rotta atlantica ancora una volta ci dimostra che erigere muri, fisici e non, non può fermare le persone che continueranno a fuggire alla ricerca di percorsi alternativi, spesso più mortali. Le alternative a questo sistema esistono a partire dalla creazione di percorsi sicuri e legali affinché la solidarietà non venga più vista come un reato ma un dovere che ponga al centro il rispetto della dignità umana.


Profilo dell'autore

Ilaria Cagnacci
Ilaria Cagnacci
Appassionata di Balcani, sono attivista per i diritti umani con Amnesty International e seguo i movimenti dal basso. Dopo essermi laureata in Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo a Perugia, mi sono specializzata in Democrazia e Diritti Umani nel Sud Est Europa a Sarajevo. Credo fermamente nella possibilità e nella necessità di immaginare e realizzare un sistema diverso da quello attuale che ha generato una ricchezza enorme per pochi a discapito dei molti e a danno del pianeta. Su questa linea, mi sono interessata alle lotte per il bene comune, o commons, per il potere trasformativo che queste lotte possono avere, non solo nel rimodellare la nostra relazione con la natura, ma anche all'interno delle comunità stesse innescando nuove forme alternative di cooperazione e solidarietà. Attualmente mi occupo principalmente di tematiche legate all’ambiente, ed in particolare ai conflitti ambientali nei Balcani, perché un ambiente salubre è parte integrante e fondamentale per il pieno godimento dei diritti umani. Sono convinta che tutti gli esseri viventi sulla terra debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità per difenderli, per questo motivo mi definisco anche un'attivista per i diritti della natura.

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