‘Fie a Manetta’, le barcaiole veneziane contro il machismo lagunare

Andare in barca nella città lagunare significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non solo, la pandemia ha dimostrato che in certi casi si tratta di sopravvivenza. Eppure da sempre il mondo delle barche è stato riservato ai soli uomini; una tradizione riservata che viene tramandata da padre a figlio. Fino a qualche mese fa, quando un collettivo di circa cinquanta donne l’ha messa in discussione.

“Fia”, a Venezia, significa ragazza. Un termine dialettale, un po’ sbarazzino e un po’ confidenziale, con cui rivolgersi alle giovani e alle giovanissime. La “manetta” in questione è quella del timone del fuoribordo. Tenerlo “a manetta” vuol dire procedere alla velocità massima del motore. Una traduzione di “Fie a Manetta” potrebbe quindi essere “ragazze a tutto gas”. E, siccome stiamo parlando di laguna, la prima immagine che ci viene in mente è quella di una “fia” che, con i capelli al vento e la mano sinistra sul timone, plana sulle onde a tutta birra, mentre la prua del suo barchino si impenna orgogliosa. Esattamente l’immagine che le ragazze in questione hanno scelto per il loro logo. L’associazione, nata con lo scopo di insegnare alle ragazze di Venezia e delle isole ad andare in barca, è nata in pieno lockdown.

“Una delle conseguenze delle pandemia – racconta Marta Canino, istruttrice e fondatrice delle Fie – è stata quella di far riscoprire alla gente l’importanza di possedere e di saper usare la barca a motore. E questo è stato evidente sopratutto per le donne che dovevano andare a fare la spesa o portare i figli in spiaggia. Con i trasporti pubblici tagliati o affollati oltre il consentito, molte donne rimanevano per ore negli imbarcaderi col carrello della spesa o col passeggino del bambino ad attendere un battello che le prendesse a bordo. E così hanno cominciato ad adoperare la barca del marito o del proprio compagno, all’inizio per necessità ma poi anche per divertimento, scoprendo quanto è divertente andarsene a manetta per i canali”.

Le prime a prendere in mano il timone sono state le ragazze della Giudecca, l’isola divisa dalla città dall’omonimo canale. Quello famoso per l’indecente passaggio – che oramai si spera sia storia passata! – delle Grandi Navi. Un tratto di mare altamente trafficato da croceristi, mezzi pubblici, pescatori, trasporti e quant’altro. Avventurarcisi con un minuscolo barchino per la traversata non è semplice per nessuno. “Durante la pandemia il canale era deserto e molte donne della Giudecca hanno trovato il coraggio per traghettarlo ed andare a fare la spesa nei più forniti supermercati di Venezia”, continua Marta. “Oggi le cose sono tornate, quasi, alla normalità ma le donne oramai hanno scoperto quanto è bello, e utile, andare in barca autonomamente, senza bisogno di un uomo che le accompagni”.

Motori e machismo

In laguna, il mondo della barca a motore – intendendo con questo termine sia le imbarcazioni tradizionali in legno col fuoribordo, i barchini o gli open col timone a volante – è sempre stato un universo riservato agli uomini. Il barchino col 40 cavalli (se sono di più ci vuole la patente nautica) è un po’ l’equivalente del motorino per i ragazzi di terraferma. Lo si chiede ai genitori non appena si hanno compiuti i canonici sedici anni, lo si usa per farsi belli con le ragazze, per scorrazzare con gli amici e anche per farci le classiche idiozie giovanili, tipo le impennate (a Venezia l’equivalente dell’impennata è lo slalom tra le bricole, ed ogni estate qualcuno ci rimette la pelle). Una ragazza da sola in barca col motore lanciato “a manetta”, sino a qualche anno fa, sarebbe stata indicata a dito e fatta oggetto dei più beceri commenti maschilisti sul livello culturale di “donna al volante, pericolo costante”. Andare in barca, per una donna, significa solo praticare la voga veneta, per le più sportive, o la vela, per le più aristocratiche.

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“Se un trasportatore incrocia in un canale una barca con un uomo al timone, si mettono d’accordo sulla precedenza”, spiega Marta. “Se incrocia una donna, la guarda come una che sta a perdere tempo e lo fa perdere pure a lui, che sta ‘seriamente’ lavorando. Taxisti e gondolieri, poi, ti scrutano come per scoprire che disastro stai per combinare. E non parliamo dei consigli non richiesti che ti arrivano sempre anche da chi passa per la fondamenta! La prima cosa che insegno alle ragazze che si iscrivono all’associazione è di non cag*rli neppure di striscio! E scusa il francesismo!”

Marta è una veneziana doc, nata nel quartiere popolare di Santa Marta. È tra quelle calli che deve aver imparato il “francese”. Ha preso in mano il suo primo timone a 7 anni. “Guarda dritta davanti a te la linea della prua e mantieniti sempre alla stessa distanza dalle bricole” le diceva lo zio Veniero quando andavano a fare picnic all’isola di Poveglia. Il timone, Marta non lo ha più lasciato e, quando si è trasferita col suo compagno alla Giudecca, ne ha compreso ancora di più l’importanza.

Dalla Giudecca con furore

L’associazione delle “Fie a Manetta” è nata ufficialmente il 26 febbraio scorso. Conta una cinquantina di socie, è affiliata alla Uisp e riconosciuta dal Coni. Ha sede a Sacca Fisola, l’isola legata alla Giudecca da un lungo ponte, e grazie agli amici della Rebiennale – un’associazione che ricicla le installazioni della Biennale per farne arredamenti – si sta per dotare di un vicino approdo sul canale con tutti i comfort.

“Vengono da noi donne di tutte le età, dai sedici ai sessant’anni. So che ti stupirai, ma la maggioranza non sono ragazzine ma signore che hanno passato la quarantina”, mi racconta Alessandra De Marchi, che gestisce il club con Marta. Mi fa accomodare nella sede dell’associazione che tra poco si doterà anche di una biblioteca nautica. “All’inizio erano solo giudecchine o di Fusina ma poi si sono fatte avanti anche veneziane e ultimamente anche una donna di Murano”. Il che, tenendo presente la cagnesca rivalità tra le due isole poste a nord e a sud di Venezia, è un autentico miracolo! “Ci sono ragazze che sanno già andare in barca e che mi portano la loro mamma perché la istruiamo. E poi signore in pensione che vogliono usare la barca di famiglia per andare a fare la spesa o per godersi una giornata in spiaggia senza bisogno di aspettare i comodi del marito. O semplicemente giovani e meno giovani che hanno scoperto la bellezza della laguna e se la vogliono godere in pace”.

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Una scuola, questa che hanno messo in piedi le “Fie a Manetta” che non ha equivalenti in Italia. Anzi, diciamo pure nel mondo. Esistono corsi per il conseguimento della patente nautica di vela o di motore, entro od oltre le 12 miglia, ma questi corsi non ti insegnano ad andare in barchino per la laguna con un fuoribordo per l’uso del quale non servono licenze. L’addestramento all’andar per canali, a Venezia, è una tradizione che i padri impartiscono ai figli. Figli, ovviamente, maschi. Le ragazze in barca si limitano a stendersi a prua con la madre e le zie.

“La pandemia quantomeno ha avuto il merito di rendere protagonista il femminile in molte cose come, nel nostro caso, l’utilizzo della barche a motore – spiega Marta – se non altro per andare a far spese, portare i bambini a scuola o in spiaggia. Noi abbiamo cercato di favorire questo salto in avanti. Difficoltà? Tante. Anche perché non ci sono scuole o corsi di questo genere in Italia. Abbiamo dovuto inventarci gli esercizi e tutto l’insegnamento. Io, per fortuna, ho avuto sin da piccola un maestro d’eccezione come mio zio Veniero e l’ho preso da esempio!”

Chi dice donna dice… ambiente

“Fie a Manetta” non è comunque un club esclusivamente femminile. C’è anche una mezza dozzina di uomini che va a lezione da loro. “Noi non escludiamo nessuna e nessuno”, spiega Marta. “L’associazione ha un consiglio direttivo formato da cinque donne, le istruttrici sono donne e ci chiamiamo “Fie a Manetta”, ma se qualche ragazzo vuole imparare ad andare in  barca, perché dovremmo dirgli di no? Col femminismo io ho fatto pace un bel po’ di anni fa”.

A Venezia, Marta è conosciuta anche per le battaglie ambientali fatte come attivista No Grandi Navi. Le chiedo se approfitta delle lezioni per stimolare la consapevolezza delle sue allieve sui problemi di Venezia. “Non ce n’è affatto bisogno!”, incalza lei. “Sono loro stesse a raccontarmi le difficoltà che, in quanto residenti, sono costrette ad affrontare ogni giorno. Andare in barca infatti significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non ho bisogno di stimolarle perché mi raccontino i disastri provocati da un turismo selvaggio che trasforma le case in hotel o in B&B e che mercifica l’intera città riducendola ad uno sportello di bancomat. Io mi limito a fare da ascoltatrice. Le cose vengono fuori da sole. Una mia allieva un giorno mi ha spiegato che, andando in barca, ha capito che non solo non conosceva affatto la laguna, ma neppure aveva compreso la città in cui era nata. Aveva sempre vissuto sull’acqua senza sapere che viveva sull’acqua”.

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Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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