Maryam al-Khawaja ha 25 anni, gli occhi grandi scuri e un sorriso contagioso. Sorriso che terrà fino al termine dell’intervista anche nei momenti più brutti, anche quando non c’è molto da sorridere. È la sua forza. Figlia dell’attivista Abdulhadi al-Khawaja, cresciuta in Danimarca per un esilio volontario del padre, torna in Bahrein a ventidue anni.
di Ilaria Bortot
LA LOTTA PER I DIRITTI UMANI NEL DNA. “Quando sono tornata non riuscivo a trovare lavoro. Quando sei un’attivista tutta la tua famiglia paga per questo. Io ero la figlia di Abdulhadi, non c’era modo che qualcuno mi assumesse e così ho iniziato come volontaria per il Bahrain Centre for Human Rights“.
Una scelta spontanea per lei, cresciuta a pane e diritti umani. Entrambi i suoi genitori sono da sempre attivisti, come conferma lei stessa: “è stata una naturale conseguenza della mia educazione cominciare ad interessarmene”.
In questa stanza, sedute una di fronte all’altra, nella sede di Amnesty International a Roma, Maryam mi racconta quella che è stata la sua vita quando è ritornata in Bahrein nel 2011, per seguire le proteste.
“Quando ho sentito che in Bahrein c’era la rivoluzione sono tornata li, non potevo e non volevo perdermela. Quando sono arrivata il mio primo lavoro è stato quello di documentare quello che accadeva. Ho documentato le violenze, gli omicidi, le torture. Andavo soprattutto negli ospedali. Inizialmente mio padre non era li, lavorava per Frontline, non poteva partecipare. A fine di febbraio lasciò il lavoro ed diventò parte attiva della protesta. Il suo ruolo era quello di educare, insegnando alle persone cosa erano i diritti umani, quali sono i diritti civili che ognuno di noi ha, come si fa una protesta non violenta, cos’è una protesta. In Bahrein nessuno sapeva queste cose”.
UNA FAMIGLIA LACERATA DAL REGIME. Pochi mesi dopo, il 9 aprile, il padre di Maryam viene arrestato, “Sono arrivati, l’hanno picchiato fino a quando ha perso conoscenza e poi l’hanno portato via. Hanno preso anche i miei cognati, due ragazzi qualunque che nulla hanno a che fare con la rivoluzione, li hanno catturati solo perché erano in qualche modo legati a noi”. Lei se n’era già andata, i primi di marzo: “Sono stata fortunata. Probabilmente adesso sarei in prigione, o in una tomba, o qualcosa di simile”. Non un’esitazione dopo queste sue parole, continua a raccontare.
Tutti e tre sono stati torturati brutalmente. Abdulhadi al-Khawaja è il caso più grave di tortura avvenuto in Bahrein e sta tutt’ora scontando l’ergastolo.
Ad intervenire per tentare di fermare la rivoluzione sono state le GCC – The Cooperation Council For The Arab States of The Gulf, perché sanno che se il Bahrein ottiene la democrazia, se la monarchia cade, loro probabilmente saranno i prossimi. È una questione di coscienza morale. Coscienza che il popolo non deve assolutamente avere.
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DAVIDE CONTRO CINQUE GOLIA. “La gente del Bahrein non combatte solo il suo regime, combatte contro cinque regimi, e quindi c’è molto molto lavoro in più rispetto a qualsiasi altra rivoluzione. La rivoluzione in Bahrein è sconveniente, perché il Bahrein è importante sia per i paesi del Golfo sia per i paesi occidentali. A livello internazionale, qui è dove c’è il petrolio, i gas naturali ed è anche l’area dove i Paesi occidentali dicono di star combattendo il terrorismo. Hanno bisogno che il Golfo sia un posto stabile. Nessuno vuole che noi facciamo una rivoluzione. Vogliono una situazione stabile dove poter continuare a svolgere i loro affari“.
LE DEMOCRAZIE DEL COMMERCIO D’ARMI. Affari che non si sono affatto fermati, come ci conferma la stessa Maryam: “Stanno ancora vendendo armi al Bahrein e questo non aiuta in nessun modo a rendere la situazione migliore. Stati Uniti, Inghilterra, Italia, Turchia vendono armi in Bahrein. Gli affari economici, e non solo, continuano ad andare avanti come se niente fosse. Credo che il Bahrein sia l’unico Paese che non ha avuto alcuna conseguenza per la violazione dei diritti umani. Non ci sono state sessioni speciali a riguardo nei consigli dei diritti umani delle Nazioni Unite o al Consiglio Nazionale. Certo, ci sono state delle dichiarazioni, ma non sono abbastanza. È altro quello di cui ha bisogno il Bahrein”.
Ha le idee chiare Maryam su quello che dovrebbe essere il comportamento degli Stati occidentali, mi spiega che non si tratta di fare qualcosa in senso fisico ma semplicemente di rispettare i valori di cui questi stessi stati spesso si fregiano.
“Tutto quello che devono fare è attivarsi, per i loro stessi ideali e valori e principi. America, Inghilterra, Francia e altri paesi parlano sempre del l’importanza della democrazia, dei valori, dell’importanza di rispettare i diritti umani. Sono interventi con la Russia dicendo di smettere di supportare la Siria e hanno fatto bene. Devono fare lo stesso per noi. Devono semplicemente fare rispettare i loro criteri. Finché il Bahrein e gli altri Paesi del Golfo crederanno di godere di immunità per quello che fanno niente cambierà e anzi, la situazione andrà sempre peggiorando”.
BAHREIN E SIRIA IN LOTTA PER DIRITTI E DIGNITA’. Viene spontaneo allora fare un confronto con la Siria, altra rivoluzione in atto sebbene di entità e modalità totalmente diversa. Forse più coperta da un punto di vista mediatico, sicuramente più seguita dalle autorità nazionali.
“La differenza con la Siria è che il Bahrein e un’ala occidentale. Il messaggio che sta passando, e che a mio avviso è molto pericoloso è che se sei una ala dell’Occidente puoi cavartela, puoi non assumerti le tue responsabilità. La cosa pazzesca e che paesi del Golfo non si rendono conto che stanno diffondendo l’estremismo e che questo non si fermerà alla lotta contro gli sciiti. Questo odio poi verrà reiterato contro qualcosa o qualcun’altro. È davvero una cosa difficile da controllare”.
Nonostante questo e nonostante lei stessa abbia parlato con Hilary Clinton, gli interessi politici ed economici hanno ancora la meglio ed è difficile sentire i media parlare di quello che sta succedendo in Bahrein. E infatti, così come durante la più nota Primavera Araba, sono anche qui i social network a fare da addetti stampa e a tenere informata la popolazione mondiale.
“Il Bahrein ha i soldi per assumere società di Public Relations che mostrino al mondo che lì non c’è la situazione di cui i cittadini si lamentano. La differenza tra il Bahrein e la Siria è che nel mio Paese è molto chiaro quello che sta succedendo. Non serve essere lì. Io sono fuori dal paese ma so esattamente quello che succede. Basta seguire Twitter e so minuto per minuto quello che sta accadendo. So a chi credere, di chi fidarmi. È vero, ci sono anche degli addetti del Centro a documentare ciò che succede ma non è difficile informarsi. La gente è la prima a volere che tutto questo rimbalzi nel mondo”.
LA LIBERTA’ SI PROPAGA SUI SOCIAL. Twitter e Internet sono quindi il nuovo modo di combattere contro il regime. Cinguettare diventa un obbligo e i vari hashtag i temi su cui porre maggiore attenzione. Anche perché il governo del Bahrein non se la sente di bloccare Twitter, la sua reputazione di Stato moderno agli occhi dell’Occidente è troppo importante.
“Quando hanno iniziato ad arrestare o a licenziare le persone si sono basati sui social network. Se qualcuno metteva online le foto della rivoluzione oppure ci metteva un semplice ‘like’ veniva arrestato. Per le persone però resta uno strumento importante non essendoci alcun copertura mediatica. Inoltre è un modo per comunicare anche tra la popolazione stessa: se vedo un checkpoint lo segnalo su Twitter e nessuno passa da lì. Se c’è una protesta e qualcuno viene arrestato, faccio video e lo metto su YouTube e lo ripropongo su Twitter”.
ESISTE UNA PRIMAVERA BAHREINITA? Perché allora, nonostante sia passato un anno e mezzo non è ancora cambiato nulla? Perché, a differenza del Nord Africa, non c’è ancora in Bahrein una Primavera?
Secondo Maryam il problema sta nel fatto che la maggior parte della popolazione vive dentro il Paese e non all’estero.
“Non abbiamo molte persone all’estero, nessuno che lavori dall’esterno per la nostra rivoluzione, a differenza della Primavera Araba dove molti si sono attivati anche a livello internazionale. La nostra situazione è molto diversa. Siamo pochi. Ci proviamo ma è difficile. Una delle cose in cui speriamo di più e che facendo girare la notizia in giro per il mondo qualcuno ne parli e si inizi a sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo. Ma sai, il mondo è grande, molto grande”.
DALLA PARTE DELLE DONNE. Viene spontaneo chiedersi quale sia il ruolo delle donne, visto che Maryam è in Italia anche per dare il suo supporto alla campagna di Amnesty International “Alza la voce per chi non ha voce!” contro la violazione dei diritti umani delle donne in Medio Oriente e Nordafrica.
“Nei regimi, l’unico momento in cui non vengono fatte discriminazioni è quando il regime deve picchiare, torturare e arrestare. Lì si hanno pari diritti. Le donne stanno pagando un prezzo caro quanto quello degli uomini. Allo stesso tempo non solo partecipano ma costruiscono la protesta. Sono le persone più coraggiose che ho conosciuto nella mia vita. Non scappano all’arrivo della polizia. Ho visto video di donne che hanno tentato di strappare dalle braccia della polizia giovani ragazzi che venivano ingiustamente arrestati. Alcune di loro rischiano la vita per portare i primi soccorsi ai feriti dopo le botte prese durante le proteste visto che nessuno di loro può andare in ospedale. L’unico che c’è in Bahrein è militarizzato, rischiano la prigione se entrano lì”.
Donne che hanno un ruolo importante, come già avvenuto in altre rivoluzioni. Come avviene molto spesso, solo che non se ne parla.
“Credo che i media scelgano di volta in volta come trattare l’argomento donne. Non credo che in Siria non ci siano attiviste donne, credo semplicemente che ora non convenga parlarne. Le donne in Medio Oriente e Nord Africa non hanno bisogno di essere salvate. Sono capacissime di salvarsi da sole hanno solo bisogno della giusta opportunità per farlo. Questo e quello di cui hanno bisogno. Le attiviste che ho conosciuto in Siria, Bahrein, Yemen, Egitto sono davvero molto coraggiose. Hanno solo bisogno che le loro voci vengano ascoltate. Ed è questo per me il ruolo di questa campagna, assicurarsi che le loro voci vengano ascoltate. È su questo che dobbiamo concentrarci”. InshAllah Maryam. InshAllah.
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Maryam al-Khawaja is a islamic extremist who defends violence and terror while she claims to be peaceful, but ok, we all know that lying is the natural way for taqiyya shia.
Whatever…
[…] A rivelarlo è un rapporto del Centro per i diritti umani del Bahrein, un’organizzazione non governativa registrata nel 2002, co-fondata da Abdulhadi Al-Khawaja e da lui presieduta fino alla sua condanna all’ergastolo, per reati di opinione, dopo la rivolta del 2011. Dopo che anche il nuovo presidente, Nabeel Rajab, è finito in carcere, ora la presidenza dell’organizzazione è affidata a una delle figlie di Al-Khawaja, Maryam. […]
[…] A rivelarlo è un rapporto del Centro per i diritti umani del Bahrein, un’organizzazione non governativa registrata nel 2002, co-fondata da Abdulhadi Al-Khawaja e da lui presieduta fino alla sua condanna all’ergastolo, per reati di opinione, dopo la rivolta del 2011. Dopo che anche il nuovo presidente, Nabeel Rajab, è finito in carcere, ora la presidenza dell’organizzazione è affidata a una delle figlie di Al-Khawaja, Maryam. […]
[…] in carcere, ora la presidenza dell’organizzazione è affidata a una delle figlie di Al-Khawaja, Maryam.L’anemia ereditaria è la nona causa di morte nel paese, il cui principale ospedale, quello di […]
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[…] In effetti l’Archivio Disarmo Italiano ha reso noto che, negli ultimi anni sono state vendute armi al Bahrein: soprattutto armi sportive e carabine, ma non mancano rivoltelle, pistole e fucili, oltre ai loro accessori, per un totale di centinaia di migliaia di euro. Questo commercio era stato già denunciato anche dall’attivista Maryam al-Khawaja nella nostra intervista. […]
[…] Arresti di blogger, gas tossici e sonic bombs sulla popolazione, carcere alle maestre che indicono uno sciopero. La strada per la libertà è costellata di dolore. “Ho documentato le violenze, gli omicidi, le torture“, ci ha raccontato Maryam al-Khawaja (leggi qui tutta l’intervista). […]
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