di Federica Marsi
Alla fine del 1980, Michael Gottlieb, ricercatore presso l’Università della California, si imbatte in un raro tipo di polmonite dovuta a un protozoo riscontrato solo in casi di sistema immunitario indebolito. Lo strano fenomeno si ripete. Tre pazienti, tutti omosessuali attivi, riscontrano la stessa patologia. I casi si moltiplicano, si diffonde l’idea che la nuova malattia sia strettamente correlata all’orientamento sessuale, tanto che viene rinominata GRID (Gay Related Immune Deficiency) o, più brutalmente, “il cancro dei gay”. Nel 1981 l’errore è lampante. Non solo il virus ha colpito soggetti eterosessuali, ma si è anche propagato al di fuori dei confini statunitensi.
La morte dell’attore Rock Hudson, vociferato per la sua presunta omosessualità, fa conoscere al grande pubblico la malattia. Uno degli spettatori di questo evento è il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, che a fronte di 30 000 morti e di una forte pressione pubblica riconoscerà la pericolosità della malattia pronunciando per la prima volta il termine AIDS in un discorso pubblico. Nonostante questa nuova consapevolezza, il pregiudizio contro i sieropositivi è diffuso. Gli Stati Uniti introducono norme per vietare ai soggetti affetti di entrare nel paese.
Nel 1987 la principessa Diana viene fotografata mentre stringe la mano a diversi pazienti sieropositivi al Middle Sex Hospital di Londra, dando un importantissimo segnale contro l’esclusione e la stigmatizzazione del malato. Lo stesso effetto avrà la morte di Ryan White, diciannovenne dell’Indiana espulso da scuola perché ritenuto un pericolo per la salute degli studenti, in onore del quale è stato varato il Ryan White Care Act che prevede fondi governativi per i soggetti affetti dalla malattia.
Nello stesso anno viene approvato dalla Food and Drug Administration il primo farmaco contro l’AIDS, l’AZT, efficace nel prevenire la trasmissione materno-fetale.
Il 1996 è l’anno di svolta. L’Haart (Highly Active Anti-Retroviral Therapy) diventa il trattamento standard e determina un calo rapido e netto dei decessi e la riduzione dei ricoveri. Parallelamente, viene messo a punto un sistema per misurare la carica virale, monitorare la risposta del paziente e l’effettivo decorso della malattia. Il problema diventa riuscire a diffondere il farmaco anche al sud del mondo.
Da quel 5 giugno 1981, quando il centro per il monitoraggio e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti identificò i primi cinque casi di un’epidemia di pneumocistosi polmonare, hanno perso la vita 25 milioni di persone, e altre 55 milioni sono oggi affette. A trent’anni da quella data sembrano arrivare notizie positive dal Congresso Annuale della European Association for the Study of the Liver (EASL) tenutosi a Berlino. La speranza arriva da quegli stessi inibitori della proteasi (PIs) impiegati nella lotta all’AIDS dal 1996. Il farmaco valutato, il Boceprevir, alzerebbe il tasso di guarigione dal 40 al 70% a fronte di un trattamento di massimo 36 settimane anziché un anno. Esito positivo ha avuto anche la valutazione del Telaprevir, che se aggiunto all’attuale terapia standard può migliorare la risposta al trattamento.
Non meno importante è la lotta contro la discriminazione e il pregiudizio. Ogni anno il 1° dicembre milioni di persone manifestano la loro solidarietà con il fiocco rosso sul petto. Il 5 giugno vuole essere un’altra occasione per ricordare, riflettere e combattere la superstizione con la conoscenza.
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