Homo migrans: riconoscersi stranieri fra gli stranieri

Di Luca Ortello

Il 25 luglio 2011 si è tenuto in prima nazionale, nello splendido anfiteatro romano di Luni in provincia di Massa Carrara, lo spettacolo Homo migrans, scritto da Marco Rovelli, diretto da Renato Sarti con Moni Ovadia, Jovica Jovic , Mohamed Ba, Camilla Barone, presentato durante il Lunatica Festival, giunto alla sua XVII edizione.

Sul palco montato dentro l’anfiteatro rischiarato dalla luna, Moni Ovadia, di origine ebrea anche se ateo, ha affrontato il tema dell’immigrazione e del multiculturalismo partendo dalla Bibbia: nel libro dell’Esodo Mosè parte dall’Egitto con gli ebrei tenuti in schiavitù dai Faraoni. Ovadia ci fa notare che non era possibile, per Mosè, compiere un tale esodo con centinaia di migliaia di schiavi. Così ci fa sapere che Mosè fuggì con appena un quinto di tutti gli ebrei dell’Egitto. Come mai? Perché la libertà non ha mai delle certezze: i quattro quinti degli ebrei preferirono rimanere schiavi ma in una terra che conoscevano anziché partire, liberi, per una terra ignota, in mezzo al deserto. E colpisce sapere che gli ebrei che seguirono Mosè erano israeliti, mesopotamici, egiziani, ittiti, ladri, contrabbandieri… un gruppo quanto più eterogeneo si possa immaginare. D’altronde, non poteva che essere così, visto che il Dio di Mosè è il Dio degli schiavi e degli stranieri: gli ebrei sono il “popolo eletto” proprio perché partono come schiavi e stranieri. E nel Nuovo Testamento, come ricorda saggiamente Ovadia, la frase che Gesù ripete più frequentemente è: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Chi è il prossimo? Il prossimo è chiunque ci capiti al nostro fianco: un bianco, un nero, un rom, un omosessuale, un transessuale, un mascalzone… Ciò significa amare lo straniero: e il Dio della Bibbia è il Dio che difende lo straniero, il diverso da noi. Poiché tutti noi siamo diversi gli uni dagli altri, Dio ci ha saputo amare nella nostra diversità, che è anche la nostra unicità.

Da Mosè, Ovadia compie una lettura interessante su Sodoma e Gomorra: le due città distrutte da Dio non rappresentano la lussuria, come ha da sempre affermato la Chiesa, ma rappresentano la violenza contro lo straniero: i due arcangeli sono ospitati in casa di Lot e i sodomiti bussano alla porta della donna per violentare gli stranieri. Lot, pur di impedire che i suoi ospiti subiscano violenza, offre agli aggressori le sue due figlie vergini, ma i sodomiti vogliono a tutti i costi stuprare gli arcangeli. Lo stupro è l’atto di violenza più brutale e infimo che si possa infliggere allo straniero, poiché significa violare, fare violenza su qualcuno che non è tutelato, non riconosciuto dalla società che lo ospita. Per questo Dio distrugge Sodoma e Gomorra: perché commettere violenza e ingiustizia verso lo straniero significa offendere Dio stesso.

Dalla lettura biblica di Ovadia si passa alle canzoni intrise di nostalgia di Marco Rovelli, che racconta la migrazione di suo zio Alfredo dalla Maremma toscana a Milano, e a Mohamed, senegalese immigrato anche lui a Milano che racconta una significativa parabola: il vicino di casa di Mohamed è un siciliano. All’inizio il siciliano non gli rivolge parola. Poi comincia a bofonchiare e a mormorare qualcosa. Infine, un giorno gli parla e gli dice: “Guarda, negrone, io non ce l’ho mica con te! Anzi, ti sono riconoscente: perché, se prima eravamo noi meridionali le merde, adesso lo siete voi negri! Si può dire che, grazie a voi, adesso noialtri siamo saliti di un gradino nella piramide sociale…”.

Da Mohamed la parola passa a Camilla che, in dialetto veneto, racconta di come i nonni lasciarono il Veneto per recarsi a Milano nelle coree, piccoli nuclei di case costruite abusivamente dagli immigrati nei campi alla periferia di Milano, intorno agli anni Cinquanta. Camilla ricorda di come i nonni le dicessero che, allora, erano loro, i veneti, i terroni in Lombardia. Oggi la Lombardia ha trovati altri terrun tra i meridionali e gli africani. Ovadia conclude dicendo che l’Uomo, dalla Storia, non impara mai niente, e chiude citando James Joyce: “La Storia è un incubo dal quale voglio liberarmi. Per questo noi raccontiamo le storie”.

“Siamo tutti ospiti su questa Terra. Questo mondo non ci appartiene, ma dobbiamo custodirlo per le generazioni future”. (Moni Ovadia)


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