di Valentina Pomatto
Quanti, giovani e meno giovani, per strada a Mbour. La vita è per strada, al solito incrocio, appoggiati al muretto, in attesa. In attesa che succeda qualcosa, che passi qualcuno, che la giornata prenda una piega diversa.
Questo concetto di attesa non ha nulla a che vedere con quello a cui siamo abituati: non si tratta di un’attesa impaziente, di un fremito, di una proiezione nel futuro. E’ piuttosto un’attesa rassegnata, di chi attende perché non ha altra scelta, non ha altra possibilità se non quella di aspettare.
“Ici on tue le temps” mi dice Mus, uno del gruppetto che frequenta il baretto Mama Ndagne. Come molti ragazzi a Mbour non ha un lavoro, da due anni circa, quando ha perso l’impiego a Dakar ed è rientrato a casa dalla sua famiglia. La sua famiglia, sebbene Mus abbia superato i 30, è la famiglia paterna: se non hai un lavoro e non disponi dei mezzi economici, non ti sposi. L’argent è conditio sine qua non per essere un potenziale marito e padre di famiglia.
Le giornate di Mus, come quelle di tanti altri, si svolgono nell’attesa: un saluto agli amici, una visita a qualche membro della grande famiglia allargata, un thé, un giro senza meta precisa per le stradine del mercato. A volte, arriva la chiamata di qualche amico o conoscente che propone un lavoretto giornaliero: la vendita di un apparecchio elettronico, lo scarico di merce arrivata al porto, un’aggiustatina ad un’auto in panne. Poi si ritorna all’attesa.
Molti di questi ragazzi hanno studiato, parlano francese e a volte anche altre lingue, sono forti e in salute per svolgere eventualmente lavori fisici. Eppure, in un paese in cui il tasso di disoccupazione è del 48 %, non stupisce che si trovino a gironzolare nella speranza che si presenti un’opportunità.
E per molti di loro l’opportunità veste i panni di un toubab (un bianco), o ancora meglio di un gruppo di toubab, nella maggior parte dei casi in Senegal per turismo. La Petite Cote, di cui Mbour è uno dei centri principali, attira turisti europei (soprattutto da Francia, Belgio e Germania) e americani. I turisti, dopo la tappa d’obbligo a Saly, una sorta di Rimini del continente nero, si spostano a Mbour per visitare il mercato del pesce sulla spiaggia, un vero spettacolo per la vista (un po’ meno per l’olfatto) all’arrivo dei pescatori sulle loro piroghe cariche di pesce.
Tra i tanti che “attendono”, alcuni si propongono come antiquaires, una parola che qui assume un significato tutto particolare. L’antiquario è l’esperto di opere d’arte e antichità, ma il significato senegalese si allontana da questa definizione standard. Si tratta piuttosto di un mix fra una guida turistica, o presunta tale, e un venditore che non esita a ricorrere ai peggiori stratagemmi di vendita, compresi l’insistenza e l’inganno.
L’antiquaire avvicina il turista proponendosi come guida nell’affollato mercato, nel dedalo di stradine affollate che si diramano fin verso il porto. La guida, con una certa insistenza, condurrà il turista nella boutique di questo o quel famigliare o amico, avviando negoziazioni estenuanti e proponendo prezzi totalmente irragionevoli per il mercato senegalese. E così il toubab arriverà a pagare 5 volte il reale prezzo di un batik, di una statua di legno, di un tessuto locale: il venditore darà una percentuale del ricavato all’abile antiquaire che ha il merito di aver portato il turista a comprare nella sua boutique.
C’è chi fa l’antiquaire con regolarità e chi solo di tanto in tanto, quando le tasche sono particolarmente vuote. Alcuni ci tengono a sottolineare di non essere antiquaires e prendono le distanze da questa categoria, definendosi autentiche guide, ben informate e preparate per accompagnare i turisti. “Moi, je ne suis pas un antiquaire!” mi dicono con sdegno due ragazzi sul lungomare di Mbour.
Di fatto, il confine è molto labile e anche chi lavora nel turismo come guida vera e propria, magari in convenzione con qualche hotel, può all’occorrenza – e soprattutto nella bassa stagione – trasformarsi in un abile antiquaire, che nel tour inserisce la visita e l’acquisto più o meno forzato di prodotti artigianali vari a questo o quell’amico, a prezzi ovviamente gonfiati ad arte.
Per Momo, trentenne poliglotta e “intellettuale”, funziona così: di tanto in tanto lo chiamano da degli hotel di Saly per accompagnare gruppi di turisti, ma capita che per settimane non ci siano gruppi per lui e le giornate scorrano lente seduto sui gradini del solito negozietto.
Di qualcosa bisogna vivere e la concorrenza in ambito turistico è forte. In un tratto di spiaggia di 200 metri ti possono avvicinare una decina di guide turistiche o presunte tali, a proporti spettacoli di danze tradizionali, visite alla riserva naturale, ai villaggi limitrofi, al mercato.
Quando il bisogno è bisogno, il lavoro ce lo si deve inventare. Paco ha fatto così, il lavoro se l’è inventato, nel vero senso della parola però. Due sere fa, percorrendo il solito tratto di strada che porta al mare, Paco ci viene incontro raggiante: “Ho trovato un lavoro, ora faccio il guardiano di una banca!” (Da leggere con accento del varesotto, Paco ha vissuto anni in Italia e la cadenza gli è rimasta). Ci accompagna verso la banca, un edificio messo a nuovo, ma sul quale ancora non è stata apposta alcuna insegna che indichi di cosa si tratti. Davanti al portone, due sedie di plastica: una per Paco, l’altra occupata da un ragazzino che Paco ci presenta come il “suo aiutante”. “La banca apre domani, ma noi oggi facciamo le prove” ci dice Paco.
Ieri incontriamo nuovamente Paco in giro. Sul suo lavoro alla banca nessun cenno e alla domanda diretta una risposta sconclusionata, che ci strappa un sorriso. Mbour aspetta l’apertura di una nuova banca; per il posto di guardiano c’è già un primo candidato.
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