La travagliata storia dei Karen, tra la repressione birmana e il sogno d’indipendenza



di Francesco Tortora

Si tratta di un vero e proprio Purgatorio in Terra: è quello che regna al confine tra Thailandia e Myanmar (ex Birmania). Tra le 140 e le 160mila anime che vagano tra i due territori, varcando il fiume Moei alla ricerca di un qualcosa che –il più delle volte- non c’è: servizi, assistenza medica, cibo. E non si tratta di una congerie umana dell’ultim’ora, visto che son profughi che cercano di sopravvivere in quella zona del Mondo da circa vent’anni. Sfuggono alla violenza spropositata e pervicace delle forze di Polizia e dell’Esercito del Myanmar, quello che ha tenuto in scacco ed in stato di detenzione l’esile Premio Nobel per la Pace 1991 Aung San Suu Kyi per più di quindici anni complessivi trattenuta in stato di detenzione e liberata solo il 12 novembre 2010.

È una condizione drammatica perché, in questa specie di ventennale limbo, da una parte c’è l’Esercito del Myanmar noto per i metodi alquanto spicci se non dichiaratamente brutali, basti ricordare quanto attuato in termini di apparato repressivo durante la cosiddetta “rivolta dei monaci” del 19 Agosto 2009. Allo stesso tempo, è sempre alta la pressione dell’Esercito birmano con veri e propri attacchi verso i profughi nella stragrande maggioranza dei casi di etnìa Karen arroccati nei pressi del Tempio di Noh Bo, non lontano dalla città di Mae Sot, in territorio thailandese. Dall’altra parte c’è la Thailandia che non ne vuole più sapere di queste anime perse il cui destino è impossibile da perscrutare, nonostante sia trascorso così tanto tempo finora. La Thailandia, inoltre, vuole abbassare la quota di questioni confinarie, stante la problematicissima conflittualità con la Cambogia a proposito della disputa di confine nell’area circostante il Tempio di Preah Vihea dove ci si alterna tra colpi di mano militari e tentativi di approccio diplomatico.

Il popolo Karen, un po’ come i Curdi (divisi tra Turchia, Iraq e Iran), vive una diaspora perenne peregrinando senza pace tra l’originario Myanmar e la Thailandia ma è perfettamente cosciente di essere anche “merce di scambio” diplomatica tra due Nazioni che hanno relazioni commerciali intense, dove il punto di incontro è il profitto comune, giocato non tanto sulle spalle delle povere ragazze di frontiera che spesso capita di trovare nei bordelli delle principali località turistiche e metropoli dell’intera area sud est asiatica ma principalmente nel commercio delle armi e nel settore delle pietre preziose, in particolar modo i rossi rubini per i quali il Myanmar è famoso in tutto il Mondo. Ma Myanmar non vuol dire solo questo. Nel settore delle armi, il principale partner del Myanmar è Israele, nella vendita del gas birmano, tra i primi acquirenti a livello internazionale vi è l’India la quale anch’essa in cambio vende armi, i gasdotti birmani sono stati costruiti grazie all’apporto sostanziale di alcune tra le più famose multinazionali del settore energetico con prevalente capitale Usa (Total, Unocal, etc…). Ma tra i Marchi famosi ve ne sarebbero ben tanti di più da annoverare comprese la italiana Oviesse, la tedesca Volkswagen o la giapponese Toyota. Cina e Russia non stanno a guardare, visto il ruolo preminente a livello mondiale nella perpetua caccia di fonti di energia primaria. Il che spiega ulteriormente le lentezze della Diplomazia mondiale e dell’ONU nel “caso” di Aung San Suu Kyi così come nel caso delle sorti del popolo Karen e dei profughi di origine birmana che vagano tra i confini del Myanmar e della Thailandia.

Il regime militare ha anche “usato” i Karen per alleggerire l’attenzione del Mondo nei confronti della lunga detenzione alla quale è stata sottoposta Aung San Suu Kyi in modo intermittente. Nell’Aprile 2011 il Governo thailandese aveva (ancora una volta) annunciato di voler smantellare definitivamente i campi per i profughi birmani e Karen nello specifico. Poi però ci son state le elezioni e Abhisit Vejjajiva ha ceduto nel luglio 2011 il suo posto di Premier a Yingluck Shinawatra, quindi è di nuovo tutto “in forse”. Vi è anche da perscrutare le reali volontà delle autorità governative birmane, sulla carta non più presentate col volto della sola giunta militare ma con le fattezze di un Governo eletto attraverso delle apposite elezioni democratiche.

I Karen si sono organizzati da tempo in un proprio apparato paramilitare, il Karen National Liberation Army, che attualmente consta di circa 8mila soldati volontari: la loro lotta contro i vari Governi Centrali birmani dura da almeno 60 anni, praticamente dal 1948, anno in cui il Myanmar conquistò l’Indipendenza dal Regno Unito. In realtà, proprio nella Costituzione promulgata il 4 Gennaio 1948 si prevedeva un allargamento federativo delle varie etnìe che insistono sul territorio birmano, uno Stato federale che avrebbe dovuto rivestire il ruolo di Garante di tutte le minoranze ed i popoli birmani. Ma il padre del Premio Nobel Aung San Suu Kyi -il Generale Aung San- venne assassinato nel Luglio 1947. Ora –organizzazioni umanitarie a parte, alle quali viene frapposto ogni tipo di ostacolo possibile formale, diplomatico e materiale- c’è praticamente la sola Aung San Suu Kyi a ricordare le giuste aspirazioni di quella parte del suo popolo così reietto ed abbandonato da tutti, in primis dallo stesso Myanmar.

Ma i Karen non s’arrendono facilmente, sono un popolo tenace, il sogno di una loro indipendenza dal Myanmar non è mai morto, nonostante la repressione ed i ripetuti attacchi dell’Esercito birmano. Perché –in quanto sogno- il sogno d’Indipendenza del Popolo Karen non lo si può uccidere mai.


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