Voti per cibo e manciate di dollari. L’Asia delle elezioni condizionate

di Federica Marsi

Lungi dall’aver risolto tutti i problemi del Sud-est asiatico, la democrazia in questa regione sembra dover ancora fare i conti con alcune annose questioni. Sebbene la compravendita di voti sia illegale, la distribuzione di soldi e doni ai votanti rimane una pratica ben consolidata durante il periodo pre-elettorale. Secondo un rapporto dell’UNDP, comuni sarebbero anche la manipolazione dei confini geografici e lo spostamento di una larga parte di votanti in un altro elettorato prima delle elezioni.

A preoccupare è l’uso della violenza, stimolato dall’esasperazione per il ripetersi di questi episodi, che avviene prima e dopo la votazione. La strumentalizzazione del problema da parte dei partiti politici, che si accusano vicendevolmente di scorrettezze, ha portato negli ultimi anni al susseguirsi di violente proteste. L’ultima in Malesia, quando all’inizio di luglio 20,000 persone hanno manifestato dichiarandosi “Berish”, termine malese per “puliti”, con la conseguente repressione da parte della polizia con gas lacrimogeni e idranti. Studi dimostrano inoltre che i partiti politici coinvolti in votazioni scorrette hanno più probabilità di condurre azioni antidemocratiche durante il loro mandato.

Attivisti e riformisti coinvolti nella lotta alla corruzione hanno sperato che l’aumento dei salari asiatici avrebbe portato ad una diminuzione del fenomeno, ma non è stato così. Secondo l’Asia Foundation, il prezzo medio stimato per un voto alle scorse elezioni tailandesi del 3 di luglio è di 10 dollari. A beneficiarne non sono persone con un reddito basso, ma elettori che si possono permettere un telefono con fotocamera con il quale documentare l’avvenuta votazione. La contraddizione è difficilmente spiegabile, ma gli esperti ritengono che la fine della corruzione sia lontana e che anzi i suoi metodi stiano diventando sempre più sofisticati.

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La pratica più diffusa in Asia è la distribuzione di soldi e cibo, percepita come parte integrante di una società fortemente basata sullo scambio di doni. Il politico non chiede esplicitamente voti in cambio, ma questo gesto di considerazione è sufficiente a stimolare un senso di gratitudine e di obbligo nei confronti del benefattore. Recentemente però le pratiche di corruzione si stanno diversificando. Queste includono il pagamento di elettori appartenenti ad un distretto favorevole alla parte avversaria affinché non partecipino alla votazione, rinunciando alla propria carta di identità oppure macchiandosi le dita di inchiostro come se avessero già votato. Al pagamento si possono unire anche le minacce da parte del partito al potere di sospendere la costruzione di scuole o dighe necessarie alla popolazione, oppure di ripercussioni fisiche su coloro che hanno votato da “traditori”. Un altro metodo per incentivare il voto per un dato partito è la creazione di una lotteria clandestina in cui si promettono grandi guadagni su scommesse irrisorie, così da indurre lo scommettitore a far votare per quel tale candidato anche tutta la sua rete di amici e parenti. Infine, la ben nota pratica della sostituzione della scheda elettorale con una già compilata, mentre quella bianca viene portata fuori dal seggio per essere nuovamente compilata e consegnata alla persona successiva.

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Una nota positiva arriva dalle ultime elezioni tailandesi, vinte dal partito di opposizione Puea Thai, guidato da una donna, Yingluck Shinawatra. A sorprendere però è il risultato del partito Ama la Thailandia, che invece di promettere incrementi di salari, carte di credito per i contadini e progetti ferroviari ad alta velocità ha promesso una svolta emblematica dell’ambiente politico contro la corruzione. Il risultato è ancora modesto ma è stato di gran lunga superiore alla più rosea previsione di due seggi, conquistandone quattro.

La corruzione nel Sud-est asiatico appare difficile da estirpare. Molti, come dichiara il riformista malese Chin Huat, affermano erroneamente di trarre i benefici ma di non lasciarsi in alcun modo condizionare. Ma in una società in cui i voti sono comprati i desideri dei poveri sono distorti. “La conseguenza è che non sappiamo quello che i poveri vogliono”, dice Huat. “La loro voce è cancellata dalla compravendita di voti”.


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