di Valentina Severin
Negli anni Settanta, l’allora capo della guerriglia contro il dominio della minoranza bianca, Robert Mugabe, prometteva di sottrarre la terra agli usurpatori per restituirla alla popolazione nera. Nel 2000 l’ex guerrigliero, Presidente dello Zimbabwe dal 1987, ha messo in pratica la sua promessa lanciando una riforma agraria che ha sottratto le aziende agricole all’elite bianca per distribuirle tra i piccoli coltivatori neri.
DATI DISCORDANTI. Secondo uno studio dell’inglese Institut od Development Studies dello scorso anno, l’iniziativa di Mugabe avrebbe raggiunto lo scopo: la terra confiscata ai bianchi sarebbe stata ripartita tra la popolazione e avrebbe comportato un miglioramento della vita degli zimbabwesi.
L’Unione Commerciale dei Coltivatori (Cfu) dello Zimbabwe, però, non concorda affatto con il roseo quadro dipinto dallo studio inglese e, anzi, sostiene che la riforma agraria di Mugabe abbia comportato, dal 2000 a oggi, un decremento della produzione pari al 70%, costato al Paese circa 12 miliardi di dollari.
UNA RIFORMA A VANTAGGIO DI POCHI. In una relazione Deon Theron, capo della Cfu, ha denunciato che a trarre vantaggio dalla confisca della terra ai bianchi sono stati soprattutto Mugabe e la sua famiglia, che hanno “guadagnato” 39 aziende agricole, a dispetto di quanto sostenuto ripetutamente dal Presidente, che ha sempre assicurato che la sottrazione delle aree coltivabili ai bianchi fosse necessaria a correggere lo squilibrio prodotto dal dominio coloniale e che ciascun beneficiario della riforma avrebbe ricevuto una sola azienda.
Theron attribuisce alla riforma agraria la colpa del tracollo dell’economia dello Zimbabwe degli ultimi 10 anni, in quanto la manovra avrebbe distrutto la base d’imposta del Paese. “Se lo scopo della riforma agraria era sfrattare i bianchi per rimpiazzarli con i neri, può essere considerata un successo – ha dichiarato Theron – Tuttavia, se lo scopo era che ne traesse beneficio la maggioranza e non solo pochi eletti, allora è stata un fallimento“.
Il capo del Cfu, nella sua relazione, denuncia che la campagna è stata ridotta a strumento per la diffusione del clientelismo politico e cita i nomi degli alleati del Presidente Mugabe che ne hanno tratto vantaggio, assumendo il controllo di cinque aziende agricole ciascuno.
TRACOLLO DELLA PRODUZIONE. “Prima della riforma agraria”, continua Theron, “lo Zimbabwe riusciva a produrre a sufficienza per soddisfare il proprio fabbisogno interno e anche esportare all’estero. Ora la produzione non basta a rispondere alla domanda nazionale: la produzione di mais, alimento base largamente coltivato dai piccoli agricoltori autoctoni, è dimezzata rispetto al 2000; il cotone, considerata dai piccoli coltivatori un’importante fonte di guadagno, ha visto precipitare la propria produzione del 45%, mentre quella del tabacco, punta di diamante dell’esportazione zimbabwese e precedentemente monopolizzata dagli imprenditori bianchi, è scesa del 50%”.
A sostegno delle affermazioni di Theron, martedì scorso le Nazioni Unite hanno dichiarato che 1,4 milioni di zimbabwesi non riescono a sfamarsi a causa della carenza di cereali.
Lo Zimbabwe è in balia della crisi economica ormai da anni tanto che, in netto contrasto con il quadro positivo dipinto dalla Presidenza Mugabe e dall’Institut of Development Studies, nel 2009 il Paese si è visto costretto ad abbandonare la propria moneta e ad adottare il dollaro americano e la valuta sud africana.
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