di Francesco Caselli
Creare un ponte di accoglienza e solidarietà tra la Libia e l’Italia per riscoprire la fratellanza che lega storicamente i due Paesi. E’ questo l’obiettivo della Comunità Libica in Italiana, di cui Hasan Gritli, per gli amici Nanni, è uno dei fondatori. Secondo la Comunità è importante che la Libia venga riscoperta nella sua storia e nella sua vera identità, molto lontana dall’immagine data in questi anni dal regime di Gheddafi. Hasan, nonostante sia islamico, tiene a precisare che è cresciuto ed è stato educato in scuole cristiane e che è possibile instaurare un dialogo tra i due Paesi basato sul progresso e sull’aiuto reciproco e non sulle differenze religiose. Hasan “Nanni” Gritli è anche membro dell’organizzazione non governativa Alisei e creatore del comitato italo-libico “Insieme per il domani” che si occupa di inviare farmaci, equipaggiamenti e materiale sanitario negli ospedali colpiti dal conflitto in Libia.
Lei è uno dei fondatori della Comunità Libica in Italia, può spiegare quali sono i suoi valori e quali obiettivi si prefigge?
La comunità libica nasce per volontà dei residenti in Italia per identificare quelle che sono le nostre usanze, la nostra lingua e le nostre abitudini, farne partecipi gli italiani che vivono in Italia in modo da coltivare fratellanza, comunione e informazione. E’ una comunità laica, non politica, di conseguenza puntiamo sul sociale, sulla cultura e sulle tradizioni, che moltissimi italiani nati in Libia conoscono e amano. Abbiamo trovato una forte adesione in tutto il territorio italiano e stiamo puntando a far crescere questa comunità nella direzione giusta.
Quali sono le attività della Comunità e come si è mobilitata per l’integrazione dei libici in Italia dopo la rivoluzione?
Il primo progetto della Comunità libica è stato quello di fornire aiuti umanitari ai compagni libici che sono stati danneggiati, feriti o deportati durante questa rivolta e alle persone sfollate dai centri dove ci sono stati i conflitti più duri. C’è stata un’immediata partecipazione dei giovani libici che, aiutati sia da italiani d’Italia sia da italiani residenti in Libia, sono riusciti a portare aiuti umanitari. Una grande mobilitazione di giovani libici e italiani che hanno dato un esempio di cooperazione per aiutare i propri “fratelli” in difficoltà. Oltre a loro si è mobilitato il mondo dell’associazionismo. Come l’Aire, che si è attivata per dare una mano negli ospedali italiani dove stati ospitati feriti libici o l’associazione Alisei, una onlus che ha mandato medici italiani per assistere i feriti in Libia nella zona di Bengasi.
Lei parla di giovani. Proprio loro hanno rappresentato la maggioranza delle vittime nei disordini. Quale sarà il loro ruolo nella Libia post-Gheddafi?
Voglio rendere onore ai caduti libici e onore ai giovani che vogliono proiettarsi nel futuro nella direzione giusta. E’ stata la tecnologia a portare questo cambiamento in Libia perché il giovane ha sentito la necessità di partecipare all’evoluzione del Paese con i suoi pari, attraverso i nuovi strumenti che offre la rete. Quello che mi chiedo è: perché il giovane italiano può avere possibilità economiche e di servizi e non li può avere invece il giovane libico che ha le stesse capacità e possibilità? Ecco perché nel passato il giovane si è rivoltato al regime di Gheddafi e ora chiede di avere una sua identità: la sua cultura esiste e deve essere conosciuta, riconosciuta e rispettata anche dai Paesi occidentali. I giovani rappresentano il futuro competitivo della nuova Libia dal punto di vista del progresso e, perché no, anche della cultura.
Parliamo di cultura, in Libia la religione riconosciuta è quella islamica, ora aperta anche ad altre fedi come il cristianesimo e l’ebraismo. Con la caduta di Gheddafi, quanto è reale il rischio di fondamentalismo islamico al potere?
L’Islam non deve essere un pericolo per i Paesi occidentali, l’Islam è la cultura della Libia, l’identità della Libia, noi non dobbiamo parlare di religione ma di Fede. La religione islamica è sana, così come il cattolicesimo e l’ebraismo. Non bisogna quindi mettere in risalto le religioni in quanto partiti o in quanto armi da usare nei confronti di un’altra fazione. Le religioni sono delle fedi, parlano di unione, amore e collaborazione. I fondamentalisti sono usati politicamente e questo è ciò che bisogna evitare. Chi va in chiesa alle 6 del mattino non può essere considerato un fondamentalista cristiano e lo stesso vale per chi va nelle moschee. La religione islamica, che per altro pochissimi musulmani conoscono realmente, è per una libertà di culto senza alcuna intromissione esterna. Credo che sia ora di iniziare a conoscere il Corano nella giusta maniera, così come è necessario indirizzare le rivoluzioni arabe verso una strada non religiosa ma laica, quella del progresso operato dei giovani.
Parliamo dei rapporti dell’Italia con la Libia. L’intervento italiano è stato intelligente? Come vede il futuro tra i due paesi nel dopo Gheddafi?
Sicuramente l’intervento iniziale nel conflitto non è stato molto intelligente. La questione non riguarda Berlusconi ma la politica estera italiana, che in questi 42 anni di regime non ha saputo mai valorizzare i rapporti diplomatici con la Libia civile, limitandosi a quelli con il Raìs. Oggi se un libico viene in Italia spende in un giorno 10-15 mila euro e fa girare l’economia, perché in Libia c’è ricchezza. Eppure ci sono tante difficoltà per fare il documento d’ingresso, mentre il figlio di Gheddafi aveva il lasciapassare senza problemi. Ma c’è un altro problema sostaziale.
Quale?
La democrazia non si può esportare di sana pianta come un modello occidentale. La democrazia non è un farmaco che si prende e si guarisce in poco tempo, è una strada lunga e penosa che ora la Libia sta cercando di percorrere. Abbiamo bisogno di veri amici, che non ostacolino il progresso della democrazia del nostro Paese e diano la possibilità ai giovani di tracciare il proprio futuro, indirizzandoli nella direzione giusta. Sono sicuro che l’Italia sarà uno dei nostri amici più cari. In Libia del resto c’è una lontana tradizione italiana: molti medici, liberi professionisti, ingegneri durante la rivoluzione sono stati dalla parte degli insorti contro il regime e hanno voglia di ricostruire cooperando con voi, il loro Paese d’origine. Una ricostruzione che dovrà tener conto di una gravissima ferita, le donne stuprate.
Come si sta muovendo, a tal proposito, la Comunità libica in Italia?
Con l’Alisei e con la Quadrifor stiamo creando un progetto per fare delle terapie e dare assistenza alle donne che sono state stuprate. Il mondo arabo è abbastanza ‘antico’ e ‘crudo’ ma oggi dobbiamo considerare queste ferite allo stesso livello della perdita degli arti: è un dovere guarire le nostre donne come proteggerle. Come in tutte le rivoluzioni importanti della storia, anche in questa le donne sono state in prima linea, con il compito di sostenere moralmente gli insorti e dar loro il giusto apporto “calorico” (sorride). Senza di loro la resistenza non sarebbe stata così efficace. Molte donne sono state stuprate davanti ai loro uomini dalle milizie libiche e mercenarie e dal mondo delle associazioni vogliamo sensibilizzare tutte le istituzioni affinché si impegnino per dar loro la possibilità di inserirsi nella società con orgoglio. Anche lei, la donna, è una ferita di guerra e come tale deve essere guarita. Purtroppo viviamo in un mondo troppo maschilista, sia in Occidente che in Oriente. Un atteggiamento che andrebbe messo da parte visto che noi uomini traiamo la nostra forza e le nostre energie dalle donna.
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