Testo e foto di Andrea Polzoni
Il ghetto di Rignano Garganico è un insediamento storico dove i lavoratori stagionali africani arrivano d’estate per due-tre mesi in cerca di lavoro nella raccolta dei pomodori. Il più grande e popolato della Capitanata. Isolato in aperta campagna, in un territorio confinante tra i comuni di Rignano, Foggia e San Severo che per anni si sono rimpallati le competenze territoriali su questo pezzo di Africa pugliese sorto circa 15 anni fa dopo lo sgombero dell’Eridania di Rignano Scalo. Un ex zuccherificio nei cui padiglioni fatiscenti i lavoratori avevano trovato ricovero per diverse stagioni.
Arrivo a Foggia sabato 14 agosto. Il giornale locale titola ad effetto: “L’inferno del ghetto” suscitandomi un sorriso ironico. Ero già stato al ghetto nel luglio 2009.
In provincia di Foggia nel 2010 la presenza di immigrati neo ed extra comunitari ammontava a circa 18 mila presenze. Al ghetto vivono circa 500 africani. La terra qui è piatta ed interamente coltivata. Riarsa da un sole che non da tregua prima delle 18 ed è lenito da una brezza che rinfresca la notte. Di giorno si sono toccati i 38-39 gradi. Periodo di Ramadam: molti lavoratori musulmani mangiano e bevono solo prima che il sole sorga e dopo il suo tramonto. Si astengono durante la giornata lavorativa nei campi mentre riempiono cassoni da 3 quintali per 3.50 ognuno. C’è chi riesce a farne anche 15. Il contratto nazionale prevede una paga di 7 euro lordi all’ora e una giornata lavorativa di circa 7 ore. Il lavoro a cottimo non è regolamentato. I giovani africani lavorano 10 – 14 ore senza contratto. Per essere portati a lavoro pagano al capo nero 5 euro al giorno andata e ritorno. Il capo nero è un africano come loro che lavora da anni in queste zone. Spesso vi risiede anche d’inverno, ha un auto o un furgone per trasportare i lavoratori e tiene i contatti con i caporali per cui procacciano la manodopera occorrente. Di ritorno dal lavoro mi è successo di vedere uscire 20 persone da un furgone e 10 persone da una Ypsilon 10 modello vecchio!
Negli ultimi anni pare si verifichino meno episodi di violenza da parte di caporali macchiatisi in passato di pestaggi sevizie ed omicidi, espressioni di feroci sistemi criminali che arrivavano a militarizzare le zone di lavoro e residenza dei migranti. Testimoni anche le tante lapidi di ragazzi africani presenti nei cimiteri del foggiano, alcune con la scritta “ sconosciuto” .
Spesso i terreni sono dati in affitto e appartengono ad enti o proprietari che vivono lontani dal tavoliere. Quest’anno i pomodori vengono pagati 9 – 10 cent. al Kg ai coltivatori. Il prezzo è regolato dalle industrie conserviere che ad eccezione di una risiedono tutte in Campania e si servono di decine di tir che sfrecciano sulle strade del Tavoliere arrivando a caricare direttamente sui campi dove è appena avvenuta la raccolta.
La Strada che porta al ghetto è un viottolo polveroso di terra e sassi che passa in mezzo ai campi. Il villaggio conta una decina di vecchie masserie della riforma agraria dove oltre 100 africani vivono tutto l’anno. D’inverno riescono a lavorare ad altri tipi di raccolti come finocchi e broccoletti. D’estate a luglio iniziano ad affluire altri giovani che costruiscono grandi baracche con un telaio di pali ed assi in legno ricoperto da lamiere e teloni di plastica tenuti insieme dai tubicini in gomma per l’irrigazione. Nelle baracche vivono dalle 10 alle 20 persone. Dormono a terra su materassi. Un popolo che vive impastato con la terra. Giorno e notte. Come i braccianti pugliesi di una volta che durante i raccolti estivi dormivano sotto le piante in mezzo ai campi o dentro le stalle vicini alle vacche dei padroni. I braccianti per cui tanto si spese e con cui lottò Giuseppe di Vittorio.
Al ghetto vive una Tribù. Fanno vita comunitaria e sono sempre insieme, vicini. Si aiutano e organizzano dividendosi i compiti quotidiani. Capita di vedere ragazzi camminare parlando e tenendosi per mano. Non perché siano gay. Sono amici. Quasi tutti loro in Africa vivevano meglio che al ghetto. Ma non fanno di questo un dramma. Sanno che è una sistemazione provvisoria che dura da 1 a 3 mesi. Dopo la pressione da parte di alcune associazioni la regione provvede a rifornire di acqua potabile diverse cisterne 2 volte al giorno e ha messo bagni chimici in due punti del villaggio. L’assenza di acqua in passato rappresentò un dramma che causò la morte di diversi giovani affogati dentro vasconi per l’irrigazione dove volevano lavarsi o attingere acqua. Emergency provvede ad assicurare assistenza sanitaria per tutti due pomeriggi a settimana operando con due nuovi bus-ambulatori.
Nella stessa casa capita che convivano uomini di molti paesi diversi, per lo più senza problemi. Al ghetto ci sono macellerie, negozietti di scarpe, il meccanico, il barbiere, bancarelle di vestiario, rosticcerie che cuociono carne di pecora macellata sul posto. Il suk si anima poco prima del tramonto mentre i giovani musulmani di ritorno dal lavoro fanno le abluzioni con acqua lasciata a riscaldare al sole dentro taniche, dopo pregano in appositi spazi delimitati e lasciati sempre puliti per poi rifocillarsi a sole tramontato. Ci sono alcuni ristoranti-bar con stereo e tv satellitare dove per 3 euro si mangia couscous senegalese oppure un piatto di riso alla salsa piccante con sopra un quarto di pollo. La luce è assicurata da generatori a benzina. C’è chi vende il pane e una signora che insieme alla giovane figlia prepara ogni giorno dei dolci tipici del Ramadam. Ci sono diverse donne al ghetto: alcune sono madri di famiglia che gestiscono le piccole attività commerciali altre più giovani offrono sesso dentro alcuni bar ma pare siano poco richieste per la scarsità del lavoro e per la stanchezza che la sera prova chi ha lavorato duramente sotto il sole.
In questo villaggio si possono incontrare ingegneri, professori, uomini che parlano tre lingue. Uomini che hanno lasciato in Africa famiglie numerose come John che viene dal Senegal, ha 33 anni, e la cui bellezza è disarmante, lo sguardo pulito, la voce sicura: “Ho 14 tra fratelli e sorelle a casa. Io sono il più grande e sono venuto qui a combattere una guerra per la mia famiglia. Faccio finta di vivere, ma nella vita non c’è niente che vale come i genitori”.
Abramo è arrivato da Brescia con 3 figlie piccole e la moglie dal viso dolce e il corpo flessuoso. Ha costruito una casa di legno per la sua famiglia in mezzo al nulla: “A Brescia ho lavorato per 10 anni in fabbrica poi è arrivata la crisi e ci hanno messo in cassa integrazione, poi la disoccupazione di cui mi restano pochi mesi ancora. Sono venuto a cercare lavoro per l’estate ma qui lavoro non c’è”. Dal suo sguardo traspare preoccupazione. Non piove da molti giorni e la raccolta dei pomodori è sempre più affidata alle macchine che vengono affittate e richiedono solo un paio di operai oltre l’autista con un costo quasi uguale a quello necessario per la raccolta a mano. Quando piove invece le macchine non possono venire impiegate e il lavoro passa alle braccia dei migranti.
Questa gente vive semplicemente, con l’essenziale. Anche se avesse di più non si lascerebbe sedurre dalla pubblicità. Mi ricorda il proletariato rimpianto da Pasolini quando venne involgarito dal consumismo. Questa gente possiede la propria vita e le proprie braccia da vendere. Sempre più consapevole di essere sfruttata è capace di rivoltarsi come a Rosarno o l’ultima volta al c.a.r.a. di Bari dove i richiedenti asilo aspettano la risposta dalla commissione anche 18 mesi mentre i termini di legge sono di 6. Alla fine esplode la rabbia.
Con le braccia di questi lavoratori le aziende agricole servendosi di legali e malversatori italiani in combutta con intermediari africani producono enormi profitti. Ci son state inchieste che han riguardato anche appartenenti alle forze dell’ordine. Ogni anno si fanno arrivare circa 200 mila stagionali con il decreto flussi. A ogni migrante viene fatto pagare una specie di pizzo di 5 – 7 mila euro con la promessa di un regolare contratto stagionale. Arrivati in Italia il loro referente si fa vivo solo dopo 8 giorni, termine entro il quale il lavoratore si sarebbe dovuto presentare in questura insieme al datore di lavoro per regolarizzare la propria presenza in Italia. Dopo gli 8 giorni scade il termine e il lavoratore è pronto per essere schiavizzato. Senza diritti perché senza documenti. Una barbarie organizzata scientificamente cui è funzionale la legge Bossi-Fini.
Al ghetto ho incontrato Ismael che si sta laureando in architettura alla Sapienza. Arrivato da Nardò, nel Salento, dove ha preso parte allo sciopero dei braccianti africani che hanno lottato ed ottenuto importanti risultati come l’aumento della paga, l’ingaggio diretto con i proprietari senza la mediazione dei caporali e maggiori controlli nelle campagne da parte delle autorità.
Dopo tre giorni di cammino per il ghetto un ragazzo si avvicina chiedendomi se mi ricordo di lui: è Musa! Eravamo stati una mattina del dicembre 2009 in giro per Rosarno durante la raccolta delle arance. Lui aveva una infezione agli occhi dovuta alle precarie condizioni di vita in una baracca d’inverno. Lo accompagnai all’ambulatorio per migranti e mi raccontò tutte le fasi del viaggio da casa sua fino a Lampedusa e poi a Rosarno. Lo abbraccio emozionato. Noto che non ha fatto progressi con l’italiano. Lo vedrò spesso i giorni seguenti leggere il corano. Concentrato all’ombra della casa dove fa da cuoco per tanti giovani. Vive da transumante. Si sposta tra Puglia, Calabria e Sicilia a seconda della stagionalità dei raccolti agricoli. Traspare in lui come in altri una profonda dignità. Qui al ghetto si tiene molto al rispetto. Il saluto quando ci si incrocia è sentito.
A terra c’è un po’ di sporcizia. All’inizio del viottolo sterrato che conduce qui 3 cassonetti straripano da giorni senza che vengano vuotati dalla nettezza urbana. Una scout cittadina foggiana mi dice con un filo d’imbarazzo di non esser sorpresa. Foggia ha vissuto una emergenza rifiuti paragonabile in diversi quartieri a quella napoletana: “Se non li vuotano in città figuriamoci qui”. Quotidianamente leggo il giornale locale che riporta notizie di rapine, furti, spaccio, vandalismo e alcune sparatorie nella provincia. Spesso ripenserò con acida ironia al titolone del giorno in cui arrivai: “L’inferno del ghetto”.
Ho conosciuto alcuni ragazzi che qui vengono in ferie. Come si va ad un campeggio dove si sa che si ritroveranno molti amici: Konate studia in una scuola professionale a Brescia, di pomeriggio lavora da un carrozziere con cui ha un ottimo rapporto. Al ghetto sta studiando per il prossimo esame della patente. Ha 19 anni e parla un buon italiano con accento bresciano. Contento di star qui con la mamma che gestisce una piccola bottega e due fratelli piccoli. A Brescia ha molti amici italiani. “Due anni fa ero venuto per lavorare. Il primo giorno dopo 3 cassoni ero distrutto e avevo capito che non potevo andare avanti. Il proprietario mi ha dato 50 euro per fare il biglietto del treno e sono tornato a casa”.
Qui c’è anche una scuola d’italiano. Apre dalle 17 fino a notte. Dal lunedì al sabato. Frequentata da molti ragazzi africani. Alcuni tornano da lavoro si lavano e arrivano con la dispensa. Vengono aiutati da gruppi di scout e volontari come la prof. Maria: lavagna, pennarelli, sedie in plastica e un telo per tetto. La scuola è stata ideata da Arcangelo: un prete scalabriniano che a quattro anni emigrò in svizzera con la mamma per ricongiungersi al padre che già da anni lavorava oltralpe. Per circa due anni visse da clandestino in Svizzera perché ai figli dei lavoratori stranieri non veniva riconosciuta la cittadinanza. Ricorda quando i lavoratori italiani venivano chiamati porci zingari. Al ghetto viene da anni con la voglia di incontrare le persone e ascoltarne le storie. Dice che ne rimane sempre arricchito. Una presenza discreta rispettata da tutti. Arcangelo porta al ghetto giovani volontari italiani che giocano con i 10 bambini che abitano qui. Inoltre aiutano ad imparare l’italiano a i loro coetanei africani. Fianco a fianco. Un luogo d’incontro che supera i tanti piccoli inferni d’ ignoranza. Arcangelo dice che solo così l’Italia può crescere e migliorare: insieme ai migranti.
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Alla fine Gervasio ha cambiato nick e ora capisco la sua vana polemica..
In quanto è uno che doveva darmi una mano a fare un reportage in Basilicata ma si è rivelato un pessimo contatto che metteva solo bastoni tra le ruote e con cui ho preferito non collaborare minimamente..
Ho trovato successivamente un contatto disponibile con cui ho realizzato un ottimo lavoro..
Tra l’altro è venuto poi fuori che da quelle parti c’è gente che vota pd e poi fa volontariato coi migranti.. spero non vadano ancora in giro a dare lezioni su cosa faccia male ai migranti o meno…
Si rileggano la legge Turco-Napolitano magari o si informino su tutte le discriminazioni e le violenze che i migranti subiscono dove governa la sinistra..
Quindi quello del sig. Gervasio era solo un attacco gratuito e fatto col nick mascherato.. lascia il tempo che trova..
Le mie immagini son state viste da migliaia di persone..
Ciao Andrea, davvero molto interessante, estremamente interessante quello che riporti. Ma scritto davvero male… a prescindere da “i sitemi schiavistici promossi dal potere politico-economico italiano” non credo che potrebbe essere pubblicato cosi’ com’e’ per la lingua (da rivedere in molte parti)… assolutamente si per i contenuti, profondi e nel cuore delle cose che contano! complimenti!
Grazie del tuo Parere Tommaso. Credo sia difficile poter prescindere da “i sitemi schiavistici promossi dal potere politico-economico italiano” perchè sono la causa di sopraffazione verso degli uomini. Questo report è stato pubblicato: lo hai letto. La lingua è importante sia scorrevole. Vario la forma ma è sempre essenziale fotografica e non rinuncia al punto di vista personale diretto.
grazie per questo importante reportage.
Roti per fare una raccolta fondi non serve condividere il mio articolo.
se vuoi farlo leggere a qualcuno gli indichi il sito e lo leggono dove lo hai letto tu.
inoltre non credo nella carità. c’è bisogno di altro per mutare i sitemi schiavistici promossi dal potere politico-economico italiano e che la maggioranza della popolazione fa finta di non vedere ed anzi alimenta.
quelli dui cui hai letto sono lavoratori. il pane se lo guadagnano.
infatti il prete non porta loro beni materiali..ma presenza.. ascolto..aiuto nell’apprendere l’italiano..
se credi puoi organizzare una mostra o una proiezione pubblica nella tua città
saluti e grazie! canziart@libero.it
Mi sono commossa, questa lettura è illuminante anche se potevo immaginare dalle immagini scarse che qualche tv, trasmette.
Continua il tuo lavoro che è buono.
Se vuoi potrei organizzare una raccolta fondi per aiutarti.
Non conosco nessuno in Capitanata ma credo che potendo condividere il tuo servizio, qualche persona di buona volontà potrebbe farsi avanti. Potrei mandare fondi a quel prete che tanto si prodiga.
Roti
Pubblicando gratuitamente questo mio lavoro qui su Frontiere news lo condivido con molte persone. Inoltre lo diffondo su facebook in molte pagine sensibili.
Questo mio reportage è costato fatica soldi tenacia e tempo.
E nono stante il suo valore mi sia stato ricnosciuto da giornalisti e fotografi più famosi di me sono costretto a regalarlo viso che non ho conoscenze su quotidiani o settimanali. Non posso neanche rientrare delle spese per poter documentare altre situazioni. Questo che leggete sopra è frutto di lavoro.
Purtroppo è questa la situazione dell’editoria in Italia: produci un lavoro serio e devi scendere a compromessi per diffonderlo. Non so se capite che è incivile oltrechè umiliante. Ma non importa. Io continuo. Anche perchè la cosa più bella è farli questi lavori. La cosa più importante è il rapporto con i migranti, l’esperienza di vita. Condividerli è si importante ma secondario. In passato mi è capitato di pubblicare un reportage su un sito e di scoprire poi che era stato “rubato” da altri siti senza neanche chiedermi il permesso. Non so se voi lavoriate gratis nel caso fatemi sapere… ma da precario quale sono vi assicuro che nn è piacevole… Per quanto riguarda le proiezioni io ne tengo in giro per l’Italia e son molto più documentate e fotograficamente approfondite delle 4 foto che vedete qui. Il reportage completo è di circa 100 immagini. quindi resto eventualmente a disposizione. Diversamente il contenuto resta esclusivamente di mia proprietà e dei migranti. Al ghetto io ho tenuto una mostra fotografica come ne ho tenute altre in campi rom e baraccopoli di profughi con le foto che avevo fatto loro nei medesimi posti. Sono queste le condivisioni che mi danno la più grande soddisfazione. A fare male ai migranti sono il razzismo di stato e la mancanza di solidarietà concreta che solo pochissimi danno loro.
grazie!
per proiezioni pubbliche e mostre canziart@libero.it
Prova Il Fatto Quotidiano – poi non ha qualche pubblicazione Emergency? Grazia? Resista – ci sono delle belle pubblicazioni in giro ed è un bellissimo articolo. Mi piacerebbe leggere un brano con i miei studenti di traduzione consecutiva – potrei? 🙂
leggo questo articolo dopo un anno ma dai racconti dei miei “amici” che stanno in quelle pianure assolate non è cambiato nulla.
Quando sento questo mio caro amico maliano e il suo cinismo provo un misto di rabbia, compassione ma profondo rispetto per il loro essere forti e orgogliosi nonostante tutto.
Poi penso che quella è stata la vita di molti braccianti agricoli italiani prima che arrivassero loro ma la differenza sta nelle cittadinanza ma adesso non conta più neanche quella temo, non dà più nessuna garanzia. Mi piacerebbe vedere il reportage che hai scattato. Sono combattuta, mi piacerebbe andare lì direttamente sul campo e vedere con i miei occhi ma sono un pò codarda non voglio vedere, troppa tristezza.
Sono una docente delle Superiori, credo che sarebbe interessante condividere con i miei studenti parte di questo materiale, è possibile? Grazie
é bello quello che scrivi e racconti un pezzo delle “città di Cartone” nelle nostre terre. Non capisco però la nota che vieta la diffusione di questo tuo articolo che invece potrebbe arrivare a molte altre persone. crediamo che queste limitazioni non facciano bene ai migranti…….. Gervasio