In Libia i sordi combattono con i ribelli. Sperando in un futuro di diritti

di Federica Marsi

Per oltre quarant’anni il regime di Gheddafi si è retto su un precario gioco di equilibri tra divisioni tribali, razziali, etniche e religiose. In assenza di un leader forte e di una bandiera comune, queste differenze sembrano destinate a sfociare in una vera e propria guerra civile giocata su contrapposizioni e rivalità diventate endemiche sotto il regime.

“Il problema”, dice Hassan Emnasser, rifugiato di Tawerga, al Global Post, “non è Gheddafi, il problema è tra bianchi e neri. Gli abitanti di Misurata non trattano bene le persone di Tawerga. E’ difficile trovare un lavoro, quindi si uniscono all’esercito di Gheddafi”. La guerra però non è solo il riperpetuarsi del vecchio ordine, ma anche un’occasione per la ridefinizione di tratti identitari comuni. E’ questo il caso degli 86 ribelli guidati da Khalid Mustafa Sati. A distinguerli è il fatto di essere non udenti e di aver scelto ugualmente di combattere una battaglia in cui credono.

Sotto il regime di Gheddafi l’accettazione nei confronti di soggetti non udenti ed il loro livello di integrazione nella società era molto basso, causa la scarsa educazione della comunità su questi temi e la quasi totale assenza di opportunità di lavoro. La stessa lingua dei segni, diversa da quella parlata nel resto del mondo, era strumento di segregazione. Il regime, timoroso di qualsivoglia forma di unità e aggregazione da parte della popolazione, ha incentivato, se non creato ad arte, un ulteriore muro di incomunicabilità tra cittadini udenti e non udenti, ostacolando la costruzione di associazioni di aiuto e assistenza.

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Durante la guerra i ragazzi di Tawerga si sono trovati a combattere da pari al fianco delle altre unità, avendo l’occasione di dimostrare non solo la loro idoneità al combattimento ma anche le loro preziose doti di osservatori. “Le persone confidano troppo sull’udito”, dice Abubakar Mustafa Awene, volontario diciottenne non udente, schierato tra le fila dei ribelli, che al Global Post racconta di aver visto e ucciso un soldato lealista pochi secondi prima che lanciasse una granata.

“’L’ accettazione e il sostegno hanno dato a questi uomini, prima temuti e discriminati, un senso di soddisfazione e di sicurezza” ha detto Mohammed Hussien Gabag, portavoce e interprete dell’unità speciale. “La prima volta che abbiamo fatto richiesta per formare quest’unità nessuno ha voluto aiutarci perché avevano paura di noi”, continua Gabag, “mentre adesso quando la gente ci incontra ai check point, ci saluta calorosamente perché ha visto i nostri sforzi per liberare la città”.

La strada per uscire dall’isolamento non è però stata semplice, la maggior parte degli uomini era spaventata all’idea di uscire di casa. Formare un gruppo di persone con le stesse difficoltà ma con la stessa voglia di combattere li ha aiutati a trovare il coraggio e la motivazione necessaria per dimenticare, e far dimenticare, la propria condizione, diventando a tutti gli effetti parte di un’identità più grande.

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La vicenda dell’unità speciale sembra confermare l’analisi fatta da Ghazi Gheblawi sul suo blog Imtidad e riportata dal settimanale Internazionale (n. 913). In Libia si sta costruendo una nuova generazione di giovani che ha assaporato il frutto proibito della libertà e del dissenso e che non è più disposta a tornare indietro. Come ha detto Mohammed Nabbous, ucciso dalle forze fedeli a Gheddafi, “non ho paura di morire, ho paura di perdere la battaglia”. E’ questo il sentimento che accomuna oggi i ribelli libici e che ha portato, secondo Gheblawi, ad “un cambiamento umano e psicologico”. “Alla lotta militare si è affiancata la riflessione su cosa significa essere libico, con tutto il peso storico e culturale che porta con sé”. Il superamento della paura e del pregiudizio nei confronti dei non udenti, in nome di un paese libero, potrebbe essere un segnale di come questo stia realmente avvenendo.


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