Sarà per quella sindrome d’accerchiamento che caratterizza la sua politica da più di 60 anni, ma Israele non fa nulla per accaparrarsi il consenso internazionale (almeno dell’opinione pubblica).
Una delle ultime leggi approvate dal governo Netanyahu riguarda 400 bambini che verranno deportati. Israele incoraggia lavoratori stranieri, dal sud-est asiatico e dall’Africa, a trasferirsi in Israele per lavorare, evidentemente per prendere il posto dei lavoratori palestinesi scappati o cacciati. La particolarità di Israele è però quella di essere uno Stato esclusivamente per Israeliani. Se sei straniero, straniero rimani. Prendere la cittadinanza israeliana è praticamente impossibile. E oggi anche i figli degli stranieri, nati in Israele, hanno le ore contate se non sono da 5 anni nel paese, se non parlano l’ebraico e non frequentano dalle scuole elementari in su.
I bambini che non rientrano in questi requisiti verranno espulsi dal paese e rimandati nel paese d’origine. Costringendo probabilmente molte famiglie ad andare via con loro. La legge ha comportato divisioni all’interno dello stesso Governo. Il ministro dell’Istruzione, Gideon Sa’ar, ha detto: “Questo non è lo stato ebreo che conosco, se deporta bambini”. Gli ha fatto eco il ministro per gli Affari Sociali, Isaac Herzog: “Non sopporto l’idea di deportare bambini di cinque anni”. Addirittura la signora Netanyahu si è opposta alla legge appellandosi al ministro dell’Interno, Ely Yishai, invitandolo a tornare sui propri passi. Ma la legge è stata approvata con 13 voti favorevoli, 10 contrari e 4 astenuti. La sezione israeliana di Unicef ha contestato il provvedimento, definendolo una ‘palese violazione’ della Convenzione che Israele ha firmato con altri duecento Stati.
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