di Joshua Evangelista
Hushèr in armeno vuol dire memoria. Memoria di quanto è accaduto, memoria da preservare contro chi vuole annientare un ricordo scomodo e contro l’inesorabile logoramento del tempo, che annebbia anche le immagini più nitide e dolorose. Avedis Ohanian ha il grande merito di raccogliere in un racconto fluente le testimonianze eccezionali di alcuni degli ultimi superstiti del genocidio armeno che trovarono rifugio in Italia. Da collante il racconto di Antonia Arslan (La masseria delle allodole), che con un approccio materno alla storia, tipico della grande narratrice, presenta ognuno dei testimoni del primo sterminio di massa del Novecento.
Conosciamo Hripsime, deportata con il marito e scampata per miracolo al massacro; Ovsanna, che per il gran dolore dedicherà tutta la sua vita a ricamare gli antichi punti armeni; Karnig, la cui vita avventurosa sarà sempre un punto di riferimento per i due figli avuti in Italia; Anahid, testimone della strenua difesa dei giovani di sette villaggi armeni, che lottarono fino alla fine contro l’esercito ottomano; Raffaele Gianighian, salvo grazie alle abilità da fabbro del padre, di cui una tribù curda aveva urgente necessità.
A intervallare le voci del ricordo ci sono le foto di Armin Wegner, l’ufficiale tedesco che testimoniò il rastrellamento ad opera dei Giovani turchi, il partito che sognava un paese purificato dalle minoranze armene, assire e greche e che tanto ispirò i deliri pangermanici di Hitler.
Un documento unico, dal valore inestimabile se si considera i pochi dati del genocidio scampati all’attentissimo vaglio turco. Ancora più prezioso se si pensa al doloroso fardello portato nel cuore per quasi un secolo dall’esigua rappresentanza di armeni nel nostro Paese, appena un migliaio. Qualcuno di loro dice che non potrà mai perdonare l’avidità di sangue dei turchi, altri affermano che nel cuore di un deportato non c’è più posto nemmeno per l’odio. Ad accomunare questi anziani è la voce infantile di un ricordo indelebile.
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