Soldati Usa in Uganda, ma non per combattere il dittatore Museveni

di Giuliano Luongo

Mentre gran parte dell’attenzione dei mass-media è focalizzata sulle “velleità iraniane” della Casa Bianca, non bisogna dimenticare che le forze statunitensi sono, ormai già da un paio di settimane, coinvolte direttamente in un nuovo scenario della “guerra al terrorismo”: l’Uganda.

Il Presidente Obama ha deciso di inviare 100 militari nello stato africano per supportare le forze armate ugandesi nella lotta all’Esercito di Resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra): riguardo ai fini, non sono stati evocati solo i “consueti” motivi umanitari, ma anche quello dell’autodifesa, in quanto Washington vede il Lra come una “minaccia” per il proprio territorio.

L’aiuto militare all’Uganda non è cosa nuova: dal 2008 Washington sta elargendo al suo partner africano fondi da investire in programmi di intelligence e di difesa per neutralizzare l’azione del Lra, con risultati al di sotto delle aspettative. L’ultimo versamento (da dividere con il Burundi) ammonta a circa 45 milioni di dollari più quattro droni da combattimento.

In più, nonostante le sue velleità antidemocratiche, ricordiamo che il Presidente ugandese Museveni (in carica dal 1986 e non intenzionato a cedere il passo) non è per nulla sgradito a Washington, che vede l’Uganda come una sorta di isola di stabilità nell’Africa sub sahariana. Potrebbero aggiungere le malelingue: un’isola di stabilità – ricca di petrolio – connivente e utile per gestire eventuali operazioni di contrasto all’espansione cinese nel “continente nero”.

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A fomentare i dubbi e le riflessioni su questa azione militare, va sottolineato quanto siano “fumose” le regole d’ingaggio: non è chiaro infatti se i soldati Usa debbano prendere l’iniziativa nei combattimenti, agire solo in autodifesa oppure fungere solo da advisors, come indicato inizialmente da Museveni. Anche la durata della permanenza dei militari non è stata definita. In più, non sono nemmeno chiari i confini geografici della missione, che sembra autorizzata a “sconfinare” nei Paesi limitrofi (Congo e Sud Sudan).

In ogni caso, la stampa africana pare abbia apprezzato molto questo intervento, cosa del resto comprensibile visto il “curriculum” del Lra e del suo leader-santone Joseph Kony, tutt’ora sotto mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale: uccisioni, stupri, torture, reclutamento di bambini soldato sono i vettori principali del suo verbo. Beninteso, il Lra pare non abbia mai avuto aspirazioni internazionali (il suo obiettivo è quello di rovesciare il Presidente ugandese), e questo smonta parte della retorica obamiana. Bisogna inoltre ricordare che anche Museveni contribuisce quotidianamente all’instabilità del proprio Paese, controllando un regime repressivo e violento, monitorato – e denunciato – da tempo da Amnesty International e Human Rights Watch. Su questi fatti alcuni analisti liberali americani hanno basato le proprie critiche al Presidente Obama, ricordando i pessimi risultati degli interventi USA in vari teatri ed il bisogno di uscire dai conflitti, non certo di crearne altri.

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A prescindere dal punto di vista con il quale si voglia osservare questa nuova spedizione statunitense, rimane comunque una certezza: nonostante la crisi economica e gli effetti negativi di breve e lungo periodo causati dalle precedenti missioni, la Casa Bianca non perde la sua voglia di ingerire nelle dinamiche di altri Paesi – e, con un pensiero all’Iran, ciò non può che preoccupare.


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