di Francesco Zanovello
Durban, Sudafrica. E’ iniziata la Cop17, la Conferenza organizzata dall’ONU sui cambiamenti climatici.
Ѐ bene fare una breve storia del cammino degli Stati circa la protezione dell’ambiente. In poco meno di trent’anni la codificazione internazionale in materia di protezione ambientale ha fatto senza dubbio passi da gigante. Un primo esempio lo offrì la Convenzione di Vienna del 1985 con annesso Protocollo di Montreal del 1987, ratificati da più di 150 Stati, relativi alla protezione della fascia di ozono dell’atmosfera, tesi a portare all’adozione delle misure necessarie a prevenire l’impoverimento dell’ozono, con conseguente diminuzione dell’emissione delle sostanze che lo provocano. Altra Convenzione quadro è quella delle Nazioni Unite del 1992 sui cambiamenti climatici, seguita nel 1997 dal Protocollo di Kyoto relativo alle quote di riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti (per intenderci: i gas-serra) che ogni Stato contraente deve raggiungere. Sono esempi, questi, di quella attività di codificazione internazionale pattizia sulla gestione razionale delle risorse, che da alcuni anni ha preso maggiormente a cuore gli Stati industrializzati, o come si è soliti dire “occidentali”. Trattasi di norme, codificate dalle Conferenze tra Stati appunto, che assumono il compito, se rispettate, di preservare l’ambiente e assicurarlo intatto alle generazioni future. Chi possiede una discreta memoria ricorderà senza dubbio la Conferenza sul clima tenutasi a Copenaghen nel 2009, che dovrebbe sostituire il Protocollo di Kyoto in scadenza nel 2012. Ma è cosa nota che la Conferenza danese non ha portato a nessun accordo causa il veto di alcuni Paesi. Ed eccoci ad oggi, con l’avvio dei lavori in Sudafrica della nuova Conferenza sui cambiamenti climatici. Il punto focale che sarà oggetto dell’attenzione delle delegazioni di tutto il mondo sarà la necessità di arrestare il processo di riscaldamento globale planetario: insomma, il c.d. “climate change”. Di sicuro, data l’esperienza del passato, sarà difficile pervenire ad un accordo concreto, men che meno ad una possibile bozza di Convenzione, dati i numerosi veti incrociati degli Stati derivanti dai troppi interessi (non solo) economici in gioco.
Nessuno mette in discussione i termini scientifici della questione, oramai suffragati da gran parte della dottrina scientifica. Ѐ chiaro che la questione verte sui rapporti politici, e di forza, che intercorrono tra i vari Stati. Il protocollo di Kyoto (che non registra tra gli aderenti gli USA), come già detto, è destinato a scadere nel 2012, ed è bene pensare ( primo punto del programma della Conferenza di Durban) che dovrebbe essere prorogato. Ma Giappone, Australia, Canada e (forse) Europa non sono intenzionati ad assumersi obblighi, o comunque oneri aggiuntivi, se anche gli Usa e i Paesi emergenti non sono intenzionati a fare altrettanto. Ѐ notorio infatti che da un lato gli Stati Uniti non abbiano mai voluto impegnarsi in una diminuzione dell’inquinamento atmosferico, che presuppone una diminuzione del consumo di energia, che può derivare soltanto da una diminuzione di produzione economica e inquinamento tout court generale, condizioni che il Paese più ricco, potente (e inquinante) al mondo non vuole accettare. Dall’altra parte, è altrettanto noto che nemmeno i Paesi emergenti quali Cina, Brasile e India, sono disposti a sottostare a suddette condizioni, poichè porterebbero ad un (innegabile) rallentamento del loro sviluppo economico, avvertito dalle neo-potenze come un freno posto dai “Paesi-vecchi” ai “Paesi-nuovi” per evitare che i secondi li soppiantino nella gerarchia economica mondiale.
In seno alla Cop17 si vorrebbe arrivare ad un accordo globale che in un modo o nell’altro stabilisca impegni vincolanti per tutti gli Stati, benchè i Paesi in via di sviluppo chiedano il riconoscimento della “responsabilità storica” dei paesi industrializzati. Altri obbiettivi cui la Cop17 si è riproposta di raggiungere sono la creazione della “finanza verde” e la difesa delle foreste, grandi e preziosi polmoni del pianeta. Il progetto della c.d.”finanza verde” prevede il varo di un “Fondo Verde” (pari a circa 100 mld di dollari) per finanziare l’adattamento al cambiamento climatico e i trasferimenti di tecnologie “verdi”. Obbiettivo alquanto discutibile, vuoi per la difficile attuazione, vuoi per la scarsa entità del “fondo” previsto.
Il problema che queste Conferenze e Convenzioni fanno sorgere sta proprio nella loro (effettiva?) osservanza. Il quadro che la prassi degli Stati fornisce è assai deludente, e prende sempre più piede la tesi che sostiene come le norme in materia abbiano prevalentemente carattere promozionale, stabilendo premi ed incentivi per gli Stati che intendano adeguarvisi. Ma la assenza di organi internazionali che colpiscano le violazioni degli accordi in materia con sanzioni adeguate, porta gli Stati, molto spesso, a voler fare bella figura in sede di Conferenza salvo poi non applicare nulla di quanto hanno sottoscritto.
Tutti gli occhi sono, da oggi, rivolti alla Cina, primo Paese del mondo oggi per volume di emissioni inquinanti. Pechino stenta a prendere impegni definitivi e precisi circa la loro riduzione, ma sembra intenzionato ad annunciare il lancio unilaterale di un maxi-piano per tagliarle in modo massiccio.
Il nostro Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini afferma che “la comunità internazionale si riunisce a Durban con l’obiettivo e la speranza di superare la contraddizione tra l’aumento della domanda globale di energia e l’urgenza di ridurre le emissioni di CO2”
Auguriamoci che non resti a lungo solo una contraddizione.
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