Climate change: conferenza di Durban, un sostanziale nulla di fatto

di Francesco Zanovello

Più di una settima è passata dall’avvio dei lavori a Durban (Sud Africa) per la Conferenza ONU sul climate change, ma a quasi nulla di fatto sono pervenute le delegazioni presenti. “Unite against global change”: era questo il motto che diecimila persone ripetevano per le strade della città sudafricana lo scorso 3 dicembre, una folla di manifestanti scesi in piazza per far valere le ragioni dei contadini e dei pescatori, appoggiati dai rappresentanti delle associazioni ambientaliste, contro una politica troppo debole che non prende le decisioni necessarie a salvaguardare i loro interessi e il benessere della popolazione terrestre nel suo complesso.  Alberto Zoratti, rappresentante dell’Associazione Equosolidale FAIR, presente a Durban all’interno della Rete Internazionale “Climate Justice Now”, sostiene che dalla Conferenza è necessario che “esca un accordo vincolante per tutti”. In un comunicato Zoratti delinea un quadro nitidissimo della situazione, collegando i fenomeni di inondazioni avvenuti in Thailandia e la siccità persistente del Corno d’Africa a questo fenomeno di climate change, per cui bisogna capire che “il tempo sta per scadere”: agire ora o sarà troppo tardi.  “C’è bisogno di una forte mobilitazione delle coscienze, che parta dal cambiamento di stili di vita verso modelli sostenibili”, afferma ancora Zoratti, rilevando poi come necessaria una forte “pressione sui Governi perchè assumano la questione del cambiamento climatico al pari della crisi economica e finanziaria”. Ѐ infatti questo il nodo centrale della tesi sostenuta dalla FAIR per bocca di Zoratti, ossia il legare inscindibilmente la crisi climatica ed ecologica di oggi alla crisi economica iniziata due anni fa, come facce di una stessa medaglia. “Le soluzioni esistono”, continua ” e parlano di agricoltura ed economie globali, di energie alternative e di un nuovo modello di società, che limiti l’invadenza (nell’ambiente, ndr) del mercato”. A collaborare in questa direzione è presente anche OXFAM, Confederazione di 14 Ong che si occupano di sviluppo sostenibile. La Confederazione si è presentata a Durban con le idee molto chiare e alcune proposte che ha rivolto ai governi di tutto il mondo: far sopravvivere il Protocollo di Kyoto prorogandone l’efficacia; pervenire ad un accordo esaustivo e vincolante in materia; incrementare i tagli di CO2 per mantenere il surriscaldamento globale sotto i 2°C. Kelly Dent, portavoce di OXFAM a Durban, sostiene che “lo scenario può solo che peggiorare, poiché i cambiamenti climatici si stanno intensificando. I governi devono agire per salvaguardare le scorte di cibo ed evitare che milioni di persone finiscano per soffrire di fame e povertà”. Sì perché uno studio di ricerca operato da Oxfam, relativo agli impatti del cambiamento climatico sulla situazione dell’alimentazione e della fame nel mondo, rileva che gli eventi climatici estremi sempre più frequenti avranno un rischioso impatto sui prezzi alimentari, riducendo le scorte, destabilizzando il mercato e provocando un’impennata dei prezzi stesi.

In questa direzione sembra muoversi l’Europa, che lo scorso weekend ha proposto una sorta di road-map per un’intesa legalmente vincolante per tutti, con l’obbiettivo di tagliare le emissioni di gas serra. Ma il vertice di Durban si è concluso, dopo più di una settimana, con un nulla di fatto sostanziale. L’altra notte, alle 04.45, è stato approvato l’accordo denominato “Durban Platform”, un accordo “vincolante” per gli Stati che vi hanno aderito. Tale accordo è da leggere in un duplice modo: una sconfitta (politica) in termini di salvaguardia dell’ambiente da un lato, e una vittoria sul piano della diplomazia mondiale dall’altro. La sconfitta politica, la sconfitta che caratterizza di più il carattere di tale Conferenza ONU, risiede nel fatto che molti Paesi se ne sono tirati fuori, hanno permesso a chi voleva di sottoscrivere l’accordo, ma si sono astenuti a loro volta dal farlo. Infatti, benché nei giorni scorsi la Cina avesse confermato la sua (assai generica) disponibilità a concordare impegni vincolanti per la riduzione delle emissioni, tale disponibilità è venuta meno quando non c’è stato riscontro delle medesime intenzioni da parte degli altri big della terra.  Sono gli Usa, infatti, ad avere la posizione più intransigente: hanno chiesto di congelare qualunque piano di riduzione delle emissioni fino al 2020. Questo ostruzionismo, sul piano dei negoziati, è spiegabile a causa della ormai sempre più debole presidenza Obama, la quale anche se ben intenzionata a seguire le linee guida di Durban, deve fare ogni giorno i conti con un Congresso a maggioranza repubblicana che la ostacola in ogni modo. Tale ostruzionismo porta gli Usa: a non voler prendere impegni legalmente vincolanti senza che altrettanto facciano Cina e India; a non condividere l’accordo per il finanziamento del Fondo Verde con 100mld di dollari e a non volere la proroga del Protocollo di Kyoto per i paesi industrializzati anche dopo il 2012. Le Associazioni ambientaliste e per i diritti umani (Oxfam, WWF, Greenpeace) hanno chiesto agli Usa quantomeno di farsi da parte, e di non essere da ostacolo per le trattative tra altre parti del negoziato. Così infatti hanno fatto, portandosi dietro però pure Cina, Giappone, Russia e Canada.

Uno studio del Global Carbon Progect, pubblicato su Nature Climate Change, rivela che, dopo un abbassamento delle emissioni di gas serra nel 2008-2009, la crisi finanziaria e economica degli ultimi due anni ha portato ad una minore attenzione verso la prevenzione dell’inquinamento climatico, facendo incrementare notevolmente le emissioni di CO2, soprattutto ad opera di paesi industrializzati.

L’accordo firmato ieri sera, che più di un accordo appare come un rinvio post-2020 delle trattative, implica da un punto di vista scientifico che il surriscaldamento terrestre si alzerà a +3°/3,5°C, con delle conseguenze sul piano climatico globale devastanti, dal momento che la situazione può essere a stento tenuta sotto controllo con un surriscaldamento di +2°C (come prevedeva Kyoto).

La vittoria diplomatica (ben poca cosa), si palesa nel fatto che pur non avendo avuto l’appoggio di Paesi assai importanti, l’accordo “Durban Platform” è stato sottoscritto dall’Europa e da molti altri Paesi, intenzionati a continuare con gli impegni già contenuti nel Protocollo di Kyoto.

Ha prevalso quindi la linea politica degli Usa, ossia la linea di un rinvio delle negoziazioni sostanziali, ed anzi sono stati fatti passi indietro rispetto agli obbiettivi che avevamo raggiunto con Kyoto.

Ma sono proprio i Paesi industrializzati che dovrebbero, invece, farsi baluardi di questa missione di salvaguardia dell’ambiente e del clima terrestre: non possiamo accollarci solo gli onori derivanti dalla ricchezza e dal benessere della nostra società, dobbiamo altresì farci carico degli oneri propri dei “primi della classe”: siamo concentrati nel risolvere la crisi economico-finanziaria per lasciare alle generazioni future una situazione di stabilità economica e di benessere, ma siamo davvero convinti di poter raggiungere questo risultato prescindendo dalla salvaguardia dell’ambiente e del clima?

 


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