di Emilio Garofalo
La storia è fatta dagli uomini. E’ la linea del tempo che scorre sul selciato della esistenza umana e da questa dipende. Deve averlo capito molto bene il popolo ecuadoregno che si è ribellato, preoccupandosi di farlo sapere al mondo intero, al debito estero. E, scegliendo di non pagarlo, sta scrivendo ora pagine importanti di storia nazionale.
Dopo l’Islanda, capace di insegnare alla Comunità internazionale il valore della democrazia partecipata e di interpretare la rivolta contro i poteri forti con il cambiamento radicale dell’architettura istituzionale, adesso è la volta dell’Ecuador: il presidente Rafael Correa ha annunciato in questi giorni che non ha nessuna intenzione di pagare un debito ritenuto iniquo e “contratto in modo illegittimo”.
Per agire così, Correa si è barricato nella fortezza di una dettagliata perizia finanziaria, compiuta da una task-force appositamente creata per fare luce sulla reale storia del debito maturato dal suo paese. La commissione ha analizzato i dati economici e gli investimenti di capitale, concludendo che il debito ecuadoregno è illegittimo per via di prestiti iniqui e interessi a esclusivo vantaggio di banche, istituti di credito e multinazionali. Una vessazione contrattuale che ha danneggiato non solo l’economia dell’Ecuador ma anche la sua tenuta politica.
Già a partire dagli anni 80 lo Stato era collassato a causa dell’ossessa corsa all’arricchimento dei grandi capitalisti, per lo più provati cittadini, per garantire i quali la finanza pubblica si era schierata con i propri fondi. Creditori erano, a loro volta, i ricchissimi capitalisti statunitensi, spalleggiati dal potere politico. E proprio la politica è intervenuta a favore dei creditori, abolendo i termini di prescrizione del debito.
L’Ecuador, costretto a saldare le enormi obbligazioni pecuniarie, ha dovuto, negli anni a venire, accettare a titolo di mediazione l’ingerenza statunitense nei propri affari, specialmente nella gestione delle risorse energetiche e petrolifere. Tale accettazione comportava la sottoscrizione di piani di privatizzazioni, con il conseguente arresto dello sviluppo economico e l’avvento di una nuova ondata di austerity.
Sarebbe proprio l’iter burocratico e la condotta vessatrice statunitense ad aver dato al presidente Rafael Correa il pretesto per sospendere la procedura del saldo del debito. Il rigonfiamento smisurato dei conti delle banche estere, la totale assenza di progetti sul suo territorio e il flusso di una ricchezza stagnante e collassata su se stessa sono oggi, per il presidente, validi motivi per non pagare.
Il popolo, naturalmente, sta con il suo rappresentante. Stanchi di pagare l’obolo a un esattore sempre più detestato, gli ecuadoregni si stanno ribellando a quello che, ormai, viene definito un vero e proprio saccheggio internazionale. Scegliendo la via dell’inadempienza. Che fa rima, per davvero, con quella disobbedienza che, sempre più, sta incidendo sui destini di gran parte delle popolazioni mondiali oppresse dalla logica imperante e sfrenata del capitalismo.
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