di Valentina Pomatto e Sarah Fragiacomo
Sull’isola di Gorée, a pochi chilometri da Dakar, il 4 febbraio 2011 veniva sottoscritta la Carta Mondiale dei Diritti dei Migranti. La Carta, elaborata con il contributo di più di 5000 persone, è un documento che nasce dal basso, risultato di un processo partecipativo di stesura durato più di cinque anni.
Non è un caso che sia stata adottata, in occasione del Forum Sociale Mondiale, sull’Isola di Gorée, luogo storico simbolico perché punto di raccolta e partenza degli schavi diretti in America. La Carta denuncia le politiche di sicurezza che inducono a credere che le migrazioni siano un problema e una minaccia, auspica un’alleanza tra persone migranti ed è innanzitutto un manifesto antirazzista.
In questi giorni, parlando di razzismo e di migrazioni, i fatti di cronaca ci riportano in Senegal, terra natale di molti dei migranti che risiedono in Italia e in Europa. L’omicidio di Modou Samb e Mor Diop, vittime dell’odio xenofobo, non è certo passato inosservato in Senegal. Ne hanno parlato giornali, TV, radio nazionali, radio-communautaires, e la notizia ha raggiunto le zone più remote del Paese.
Il giorno dopo la strage di Firenze mi trovavo a Ndiao, villaggio dell’interno a 40 km da Kaffrine, un luogo fuori dal tempo dove non c’è corrente elettrica, il pozzo dista chilometri, l’alimentazione è basata esclusivamente su ciò che viene coltivato. La sera, al buio, un gruppo di giovani e anziani raccolto davanti alle capanne per un’ataya (rito del thé senegalese) ha cominciato a parlare animatamente della tragedia accaduta in Italia ai loro connazionali; la notizia è giunta attraverso le radio, unico mezzo di informazione nei villaggi così isolati. I presenti non si sono limitati a commentare il grave fatto di cronaca, ma si è parlato più in generale dell’immigrazione in Italia, di chi parte e di chi resta. I più anziani, memoria storica del villaggio, hanno raccontato storie di immigrati partiti proprio da Ndiao verso l’Europa e verso l’America e delle loro mogli e figli che per anni e anni sono rimaste in attesa, prima dei loro mariti, poi, rassegnate, del divorzio. Molti dei presenti hanno parenti o conoscenti emigrati in Italia e, cogliendo l’occasione di sorseggiare un ataya con un’italiana, hanno condiviso impressioni, racconti, esperienze di distanze e di illusioni migratorie.
All’indomani della strage di Firenze, ci saremmo aspettate una reazione più dura e rabbiosa da parte dei senegalesi. Invece, nonostante il dolore e lo shock per l’accaduto, nella terra di origine di Mor e Modou i connazionali hanno risposto con toni lucidi e, in generale, scevri d’odio e risentimento. In molti hanno classificato il gesto dell’omicida come un atto di razzismo, mosso dallo specifico intento di colpire l’ “africano”, il “nero”, l’ “immigrato”.
Thérèse è molto preoccupata: da tanti anni lavora con italiani con i quali ha sempre avuto ottimi rapporti, di scambio e comprensione reciproca. Monsieur Sène mi dice di aver seguito una trasmissione alla radio durante la quale si è chiesto agli spettatori di intervenire per commentare l’episodio. In molti hanno chiamato esprimendo sdegno, condannando il razzismo dilagante in Europa, ma anche chiedendo alle istituzioni del proprio Paese di sostenere e accompagnare le comunità senegalesi all’estero. “Un pazzo colto dalla follia omicida esce di casa e colpisce chicchessia, non mira necessariamente al modou-modou (immigrato senegalese)”, mi dice Moustapha.
Interviene Mamadou, che invece pensa si tratti di un caso isolato che non deve essere letto come frutto di una società razzista o di un contesto di tensione. “Conosco molte persone che sono in Italia, si trovano bene, non mi hanno mai parlato di razzismo nei loro confronti. Lavorano, guadagnano e riescono a mandare soldi a casa in Senegal, fanno una bella vita”. E aggiunge “E’ un gesto di uno psicopatico, che può succedere ovunque. Anche qui in Senegal sono avvenuti omicidi di bianchi e di recente di mauritani, proprio qui a Saly; ma questo non vuol dire che la società senegalese sia razzista nel suo complesso”.
Serigne, che ha vissuto per 5 anni a Pavia, punta il dito contro le leggi sull’immigrazione e le politiche di sicurezza: “La Bossi-Fini è una legge molto dura, ci ha fatto diventare dei clandestini e ha creato barriere tra italiani e stranieri. I criteri amministrativi troppo rigidi hanno fatto apparire come delinquenti anche noi “buoni” immigrati”.
Appena capisce che siamo italiane, si avvicina Lamine, a cui brillano gli occhi parlando di Italia. Ci è stato in viaggio molti anni fa, per sole due settimane, e ne è rimasto affascinato. Gli chiediamo cosa pensi degli omicidi di Firenze: “Doveva succedere, c’est la vie”, ci risponde con rassegnazione. Perché in Senegal, comunque, non c’è lettura che possa essere svincolata dal fatalismo, dal “doveva succedere” scritto nel destino di ognuno.
In Senegal, la percezione di quanto accade in Europa è spesso parziale e distorta dai racconti di chi è partito. L’emigrato, anche una volta rientrato nel proprio Paese, racconta di un’esperienza positiva, deve mostrare di essere riuscito e tende a tacere gli aspetti più duri del proprio trascorso migratorio.
Pertanto, risulta difficile avere un’immagine reale della situazione dei propri connazionali emigrati e mancano molti elementi per poterla analizzare con lucida oggettività. Chi è qui non viene a conoscenza delle ideologie estremiste di certi partiti politici, né della xenofobia di certi movimenti come quello di Casa Pound, non può immaginare i discorsi discriminatori così comuni in Italia o gli sguardi indagatori e prevenuti rivolti agli immigrati.
Secondo i dati ISTAT, i senegalesi residenti in Italia al 1 gennaio 2011 erano 80.989, 11.5% in più rispetto all’anno precedente. Dal Senegal partono ogni anno soprattutto giovani uomini, attratti da un sogno, da un mito di un’Europa benestante e ricca di opportunità, mito che probabilmente neppure fatti di simile gravità riescono a scalfire.
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