di Nicola Casile
Il 6 agosto 2012 la Giamaica festeggerà il suo 50° compleanno da nazione indipendente. Risale infatti al 6 agosto 1962 la sua indipendenza dal Regno Unito. Cinquant’anni dopo la Giamaica è ancora un paese povero, con forti disuguaglianze e grandi contraddizioni. Un paese raccontato dai suoi cantanti e rappresentato dai suoi atleti, colorato dai suoi abitanti e insanguinato dall’altissimo tasso di violenza.
Da tempo è meta privilegiata per almeno due tipi di turisti: quelli che la amano e che se ne innamorano di più ogni volta che ci tornano, e quelli che vi si recano per una serie di attrazioni che, tutto sommato, potrebbero trovare anche altrove.
Raccontare la Giamaica a parole sarebbe cosa complicata e riduttiva, ma esistono altri modi per farne conoscere l’anima, quella vera, a volte mai percepita da chi si accontenta dei circuiti turistici classici. L’isola di Usain Bolt e di BobMarley potrebbe essere proposta, ad esempio, attraverso i tanti film o documentari che negli anni, registi di varie nazionalità, hanno realizzato approfondendo vari aspetti caratterizzanti di questa terra un po’ americana, un po’ africana.
Guardare “Rockers”, meglio ancora se in lingua originale, è come fare un viaggio di poco più di un’ora tra le strade e i vicoli dei ghetti giamaicani. Si tratta di un film “cult” del 1977, nel quale i protagonisti sono alcuni noti musicisti (Leroy “Horsemouth” Wallace, Big Youth, The Abyssinians, Jacob Miller ecc). Ciò che da subito affascina, ancora prima della trama, delle immagini e delle movenze plastiche dei personaggi, è un linguaggio che, per quanto di radice anglosassone e identificabile in linea di massima con l’inglese, assume toni del tutto caratteristici. E’ il patois Giamaicano.
La musica in Giamaica parla della realtà, e dunque in ogni epoca è riuscita ad essere autorevole interprete delle tensioni sociali, delle speranze e dei fatti che accadevano. Esempio eloquente a tal proposito è “Roots Rock Reggae, Inside the Jamaican Music Scene”, documentario del 1977 che vede come ospiti vari nomi noti della scena musicale di quegli anni.
Il documentario “Deep Roots Music”, prodotto nei primi anni ottanta, offre invece uno spaccato delle varie fasi storiche della Giamaica attraverso la musica, le strade e i suoi protagonisti alternando aspetti di vita quotidiana e spiritualità. Spiritualità che assume caratteri del tutto peculiari dando vita, intorno al 1930, al rastafarianesimo, una teoria religiosa ispirata al vecchio testamento nata proprio nell’Isola.
Nei primi anni novanta una raccolta musicale dal titolo “The Story Of Jamaican Music” proponeva, in 4 cd, le canzoni che hanno fatto conoscere la Giamaica nel Mondo dagli anni sessanta in poi (dalla celebre My Boy Lollipop di Millie passando da Bob Marley, Shabba Ranks e Buju Banton). Una decina di anni dopo, nel 2002, un omonimo documentario prova ad approfondire lo stesso argomento attraverso il video, alternando interviste, concerti, backstage e scene di vita quotidiana.
La Giamaica ha una sua identità, chiara e forte, se pur inevitabile frutto di una contaminazione secolare che ne ha arricchito ogni manifestazione rendendola a tratti esagerata, a tratti surreale. Come ad esempio in “Made in Jamaica”, documentario del 2006 diretto dal francese Jerome Leperrousaz, che pur focalizzando l’attenzione sulla scena musicale, denuncia la violenza che, nel business della musica, miete da sempre un gran numero di vittime.
In Giamaica la voce e il talento possono cambiare la vita ai giovani che nascono nei ghetti, altrimenti destinati ad una vita di illegalità ed emarginazione. Ma la stessa strada possono intraprenderla anche i figli dei borghesi, ed i ragazzi di città. Tre casi, tre ritratti, tre storie raccontate da “RiseUp”, documentario a cura di Luciano Blotta del 2009 che segue, da vicino, l’attività artistica di tre artisti giamaicani di differente estrazione sociale: Turbulence, Kemoy, Juss Ice.
Ma diventare una reggae-star non è solo prerogativa di chi nell’isola caraibica ci nasce. Per molti “bianchi” europei la Giamaica è molto più di un luogo di vacanza: è una vera e propria terra promessa.
Artisti come il tedesco Gentleman o l’italiano Alborosie non avrebbero avuto il successo che hanno se non avessero scelto di andare in Giamaica e di restarci. Ed è proprio attorno alle storie di questi due cantanti che si articola il documentario “Journey to jah” di Moritz Springer e Noël Dernesch, due giovani film-makers tedeschi, uscito nel 2011.
Una scena tratta dal film “Rockers”, 1977
Il trailer del film “Journey to Jah”, 2011
Frammento da “Made in Jamaica”, 2006
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