Cosa pensano gli afgani delle truppe Nato?

di Anna Toro

Sfiducia, disillusione, sospetto. Sarebbero questi i sentimenti principali della popolazione afghana verso le truppe del contingente Isaf-Nato, ormai da oltre 10 anni presenti nel loro territorio. A rivelarlo è una ricerca del giovane giornalista free-lance Giuliano Battiston dal titolo “Le truppe straniere agli occhi degli afghani”, che offre così un punto di vista per lo più inedito della missione militare in Afghanistan.

Aumenta l’insicurezza – Supportato dall’Ong Intersos che da anni opera in queste zone sensibili, per un mese Battiston ha girato in lungo e in largo le tre province afghane di Herat, Farah e Badghis, ha parlato e discusso con diversi rappresentanti della società civile, dai religiosi ai funzionari governativi, dai commercianti agli attivisti. In tutto sono 72 interviste, con cui il giornalista e ricercatore italiano va a costruire un quadro parziale e non certo esaustivo della situazione, ma comunque indicativo del vento che tira tra i civili di quel Paese martoriato dalla guerra. Mostrando che i motivi dello scontento sono molteplici, così come i luoghi comuni da sfatare. Compreso quello, supportato dalle cancellerie della comunità internazionale, secondo cui le popolazioni si sentirebbero maggiormente sicure proprio grazie alla presenza dei soldati Nato. In realtà, qui gli afghani hanno dichiarato l’esatto opposto, ovvero il fallimento della comunità internazionale proprio nel garantire sicurezza e stabilità al Paese. L’espansione numerica e territoriale dei Talebani ne è la dimostrazione: “Nel 2004 – afferma ad esempio M. Akram Azimi, docente all’Università Ghargistan, Farah – i Talebani erano circa 400. Nel 2009, 25mila. Oggi possono contare su 30mila combattenti. La comunità internazionale dovrebbe cominciare a chiedersi perché i ribelli aumentano invece di diminuire”.

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Spese, sospetti e rumors – Gli afghani lamentano poi lo scarsissimo coinvolgimento dei locali nei progetti di sviluppo e ricostruzione. Che poi sarebbero alquanto scarsi. Basti pensare che, secondo una ricerca inglese citata sempre da Battiston, tra il 2001 e il 2009 degli oltre 280 miliardi di dollari investiti in totale per la missione, l’85% è stato destinato a spese militari, e solo il 10% ad attività di sviluppo economico e di ricostruzione. Altro elemento di forte malcontento è la mancanza di un quadro giuridico di riferimento che riguardi anche le truppe sul territorio, così come viene criticata la difficoltà dei soldati nel distinguere tra civili e “ribelli”, difficoltà che spesso si risolve con un uso indiscriminato di bombardamenti e raid notturni, e con la sistematica violazione degli spazi privati. Ma a scontentare gli afghani è soprattutto la percepita mancanza di un’azione unitaria da parte dei vari contingenti. Il che alimenta vari dubbi e sospetti tra i civili, primo fra tutti quello secondo cui ogni potenza straniera starebbe in realtà perseguendo obiettivi specifici e personali. “C’è chi dice – sottolinea Battiston – che addirittura gli stranieri abbiano interesse ad autoalimentare il conflitto, pagando i Talebani per evitare scontri diretti. Sono solo rumors, ma indicativi dell’aria che tira”.

L’Italia e il Prt – Per quanto riguarda l’Italia, protagonista fin dall’inizio del conflitto coi suoi 4mila soldati, le percezioni sono altalenanti. Da una parte gli afghani riconoscono che i fondi stanziati dal nostro Paese, decimo donatore, vengono effettivamente erogati; dall’altra lamentano l’insufficienza e soprattutto la pericolosità nel lavorare per i progetti del cosiddetto Prt, il Provincial Reconstruction Team. La sede del Prt italiano, obiettivo estremamente sensibile, si trova infatti in una zona residenziale di Herat: da tempo i cittadini chiedono che venga spostato, ma la richiesta non è mai stata ascoltata. Inoltre non sempre l’empatia con la popolazione, punto forte del nostro contingente, paga: è così che spesso le truppe che non combattono ma che fanno perlopiù presidio, come alcune delle nostre, vengono accusate di lassismo. Della serie: “i militari facciano i militari, della ricostruzione se ne occupino i civili”.

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Ritiro e timori – In ogni caso manca poco al ritiro di tutte le truppe straniere, Italia compresa, che dovrebbe avvenire entro e non oltre il 2014. La sorpresa venuta fuori dalla ricerca è che, nonostante tutte queste critiche, la popolazione vorrebbe che il ritiro fosse posticipato. Sperano infatti in una nuova e più efficace strategia da parte del contingente internazionale. I timori legati al ritiro sono principalmente due: si teme l’ingerenza delle potenze regionali confinanti, in particolare Iran e Pakistan; e l’idea che, una volta avvenuto il ritiro, i Paesi stranieri possano rinunciare a ogni futuro impegno politico-finanziario: “La grande preoccupazione – afferma in un’altra intervista Abdul Khaliq Stanikzai, della Sanayee Development Organization di Herat – è che, con il ritiro delle truppe internazionali, l’Afghanistan venga di nuovo dimenticato”.


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