di Emilio Garofalo
Sessantacinque anni, first lady tradita e dignitosamente tornata alla ribalta con eleganza e credibilità, avvocato, senatrice e poi ministro e scrittrice. E ancora, nei giorni nostri, centravanti di sfondamento della squadra tirata su da Obama per fronteggiare la multiforme crisi che, a partire dal tardo Duemila, ha attanagliato l’America. Hillary Clinton ha solcato i cieli di tutto il pianeta per affrontare questioni delicatissime: dal terrorismo, alla crisi economica, passando per il riordino sociale dello Stato, improntato al riequilibrio dei poteri forti e alla lotta alle lobbies, sino alla gestione delle campagne militari in Libia e Medio Oriente.
LIBERAL CON RISERVA Con il sorgere del nuovo millennio, nel corso di dieci lunghi anni, la Clinton si è prodigata incessantemente per definire un profilo personale di “stampo democratico”: libero mercato, senza però che il capitalismo “calpesti la vita delle persone”, sostegno ai programmi sociali in tema di pubblica sicurezza e di assistenza sanitaria, tutela alle vittime del crollo finanziario, ovvero i proprietari delle case acquistate usufruendo dei pericolosi prestiti subprime , da perseguire con un piano presentato negli ultimi giorni del 2007. Il suo obiettivo, promuovere un equo risparmio, al quale tutti avrebbero dovuto accedere: sgravi fiscali, conti pensione americani, riduzione dei disincentivi, al fine di garantire la sopravvivenza delle classi deboli. E, ancora, sul piano delle politiche sociali ha tutelato l’aborto, di cui si è detta sì contraria, ma solo in termini di scelte strettamente personali. Politicamente, invece, ha affermato che il libero ricorso alla pratica abortiva non dovrebbe essere considerato un crimine. Anche la piaga dell’abuso di droghe è stato al centro di un suo impegno, con l’annuncio, rivolto nel 2000 agli organi di giustizia, della necessità di ampliare le strutture per il sostegno alle vittime della tossicodipendenza, schierandosi contro la depenalizzazione del consumo di marijuana.
IL PUGNO “MOBILE” Ma è sul piano della politica estera che non sfugge, tuttavia, l’oscurità di alcune discusse scelte. Quella che, in patria, era una politica garantista per i cittadini, schiacciati dalla voracità del capitalismo più sfrenato, fuori dai confini statunitensi è divenuta un “pugno di ferro” ora teso, ora ritratto, per arginare le crisi con le superpotenze in espansione. Una continuità con quelle che, in passato, erano state le soluzioni dei problemi più delicati dell’agenda Bush: risale al 2002, infatti, il suo voto a favore dell’impegno militare delle forze armate Usa in Iraq. In merito all’entrata in guerra, la Clinton avrebbe parlato, in seguito, di errori e di inutilità dell’azione militare, scusandosi per quel voto controverso, giustificato solo con la speranza che questo avrebbe permesso agli ispettori Onu di individuare prove della produzione di armi di distruzione di massa.
GLI INTERESSI DI STATO PRIMA DI TUTTO A distanza di cinque anni, benché avesse intrapreso una politica finalizzata al ritiro delle truppe impegnate al fronte, Hillary Clinton non ha evitato commenti ambigui: “Non possiamo perdere di vista gli interessi strategici nazionali in questa regione”, affermava nel 2007 usando parole che preparavano il terreno a scelte drastiche. Con termini perentori, l’anno successivo, rese noto, infatti, che non si sarebbe potuto garantire la rimozione di tutte le truppe statunitensi entro la fine del primo mandato. Ma, prima ancora della questione irachena, colpì molto quando votò a favore del mantenimento dell’embargo contro Cuba, in palese contrasto contro quell’”isolamento dal mondo” che gli Stati Uniti avrebbero dovuto, invece, fortemente contrastare. E, ancora, ecco la Clinton impegnata in una campagna contro Teheran, una “sfida a lungo termine strategica per gli Stati Uniti”, condotta col dialogo ma non con remissione, per ricordare al mondo che la potenza americana deve imparare a dialogare. Ha evitato le degenerazioni militaresche, seppure definendo il regime di Ahmadinejad una roccaforte del terrorismo. Complicatisi i rapporti, subito si è lavorato per tracciare le linee guida per il confronto diplomatico con la Repubblica islamica. Tutto questa accadeva a poco più di dieci anni da un intervento che la stessa Clinton, nel 1996, aveva affidato alle colonne del Los Angeles Times: “L’Islam è la religione in più rapida crescita in America, una guida e un pilastro della stabilità per molti della nostra gente“. Una schizofrenia politica che ha indispettito i repubblicani, i quali hanno accusato l’amministrazione Obama di aver portato il Paese ad un crollo di credibilità agli occhi della comunità interazionale.
L’ANNUNCIO DELL’ADDIO Nelle ultime ore, intanto, il Segretario Generale ha affidato agli organi di stampa statunitensi una dichiarazione controversa. Fatte le opportune premesse, atte a ribadire l’amore che nutre per la sua missione, per i mandati e, più in generale, per il suo lavoro, si è detta stanca, oppressa dalla intensità estrema della sua attività, desiderosa di tornare a coltivare tempo libero, amicizie, famiglia. Ha annunciato, insomma, senza troppi fronzoli, di voler ritirarsi a vita privata. L’entourage e l’opinione pubblica si sono mostrati stupiti non poco, interrogandosi su tempi, modalità e motivi del suo ritiro. La Clinton ha specificato di voler abbandonare “alla fine del periodo di intensa attività e lavoro”, lasciando intendere che non seguirà Obama nel caso questi dovesse essere rieletto. L’agenda serratissima della Clinton (un giro del mondo in una decina di giorni che la vedrà solcare le coste della Turchia, i paesi devastati dalla crisi della Grecia, le pianure dell’India e per finire le strade metropolitane di Hong Kong) potrebbe averla mandata in overdose da lavoro, al punto da farle vuotare il sacco in anticipo e confessare l’intento del ritiro. Ma a tutto questo risulta, francamente, difficile credere, per quanto certamente una leader del calibro di Hillary Clinton possa (anzi talvolta debba) essere anche una donna normale, capace di riscoprirsi attaccata ai canonici valori affettivi. Tuttavia, il suo background, la corteccia spessa costruita sotto le spinte vorticose di una vita vissuta sempre al vertice, anche nei duri tempi della crisi (personale, come nel caso dello scandalo Lewinsky, ovvero mondiale, come nel caso del crollo del sistema finanziario occidentale da affrontare in prima linea) lasciano intendere, o almeno immaginare, quali siano le reali motivazioni di una siffatta scelta.
DUE PRIME DONNE E, allora, ecco sbucare dal cilindro magico della comprensione le frustrazioni di chi ha cercato pervicacemente il comando, illudendosi di essere ad un passo dal trono del mondo, salvo poi ritrovarsi seconda, dietro ad un vincitore, peraltro, da affiancare. E, perché no, l’abile mossa che potrebbe condurla ad incarichi di prestigio o che, sicuramente, le consentirà l’allontanamento da quel Barack Obama che, nei sondaggi, va ora su e giù come un naufrago in alto mare. Una convivenza, quella tra Presidente e Segretario, travagliata, oppressa dalla personalità spiccata di lei e dal portamento esplosivo di lui. Una collaborazione trascinata, pretenziosa, inevitabilmente approdata in uno scontro tra titani, o primedonne che dir si voglia, che potrebbe trovare degno riassunto in questo lungo addio. Così come sovviene il tormento di una donna chiamata a redimere le annose questioni di una superpotenza in declino. L’annuncio di Hillary Clinton sembra un rebus, l’epilogo discusso di una carriera altrettanto controversa.
Intanto l’ex first lady annuncia che appena andrà “in pensione” si tufferà nei suoi progetti umanitari a difesa dei diritti umani, con la “riscoperta” dell’impegno a favore di donne e soggetti deboli. Questo è quello che la Clinton, con molta probabilità, tornerà a fare. Ma molte altre ancora, e ben nascoste, continueranno a essere le reali cause per cui avrà scelto un ritiro così scenico.
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