Google ricorda con un doodle l’esploratore marocchino di origine berbera Ibn Baṭṭūṭa, nel giorno della sua nascita.
Partì da Tangeri a ventuno anni, nel 1325, e si diresse verso la Mecca, dove studiò legge. Iniziò così il suo peregrinare, che durò 120.000 chilometri e circa 30 anni, tra Africa e Asia. Tunisia, Yemen, Siria, Baghdad, Persia. E poi ancora Somalia, Kenya e Tanzania. Il viaggio del Marco Polo arabo continuò nell’Impero Bizantino, a Gerusalemme, a Samarcanda, in Afghanistan e, infine, in India. A Delhi il sultano lo nominò giudice e lo inviò in Cina come ambasciatore. Un assalto alla sua carovana fece saltare la spedizione; tentò il viaggio verso Pechino una seconda volta, naufragando però a Calcutta.
L’esploratore decise di provarci di nuovo, seguendo altre rotte. Partì quindi per le Maldive e dopo un breve soggiorno raggiunse l’isola di Ceylon (l’attuale Sri Lanka) e, passando per la Malesia, Giava e Sumatra arrivò finalmente a Pechino.
Nel 1349 ritornò in patria ma l’amore per il cammino lo portò immediatamente in Spagna, prima, e in Mali, poi. Rimase sette mesi a Timbuctu; visse con i Tuareg del Sahara fino al 1354, anno in cui tornò in Marocco, presso Sigilmassa. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse svolgendo servizio come giudice in un piccolo villaggio vicino Fez.
Le sue memorie, scritte anche grazie al poeta andaluso Ibn Juzayy, richiesero due anni di stesura. Il titolo che diede alla sua opera è Tuḥfat al-naẓār fī gharāʾib al-amṣār wa ʿajāʾib al-asfār, traducibile come “Il dono per chi osserva le peculiarità dei centri abitati e le meraviglie che si parano di fronte ai viaggiatori”. Per brevità è stato tramandato come Riḥla, “viaggio”.
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