Il carcere di Herat è un paradosso culturale: qui le donne vivono recluse, da condannate, ma al sicuro dalle vessazioni che subirebbero “in libertà” per aver sfidato la tradizione e gli uomini. L’inviata dell’Adn-Kronos Federica Ferretti, che ha visitato recentemente la prigione, racconta di un clima diverso rispetto agli altri centri detentivi afghani: “Qui le celle restano aperte e si passeggia per i corridoi, dove corrono i bambini che le donne hanno potuto portare con se. I piccoli hanno una stanza per le attività ricreative e un’insegnante. Tutt’altra realtà rispetto alle carceri afghane, dove per una donna finire in cella significa, a parte lo stigma, essere sottoposta a violenze in luoghi sovraffollati e insalubri, che non risparmiano i loro bambini”.
Un carcere che parla italiano, ristrutturato grazie a un progetto del team di ricostruzione in Afghanistan, con fondi del ministero della Difesa. Un penitenziario che ospita oggi 140 donne e tantissimi bambini. Nel braccio maschile, invece, racconta la Ferretti, “sembra di essere tornati indietro nel tempo: da un vecchio autobus scende un gruppo di uomini, appena catturati dalla polizia afghana. Hanno le catene ai polsi e alle caviglie. Si apre la porta del carcere, entrano uno dietro l’altro, destinazione: celle di massima sicurezza. Loro non sono criminali comuni, ma talebani che – assicura il direttore del carcere – resteranno dietro le sbarre almeno 20 anni. Gli altri detenuti, colpevoli di reati meno gravi o in attesa di giudizio, sono impegnati in lavori manuali: falegnameria, calzoleria, sartoria”.
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