Testo e foto di Stefano Pacini
Il ponte di Mostar è stato ricostruito, il centro storico anche. Ma la parvenza di pace forzata, vigilata dalle forze e finanziata dal senso di colpa europeo, non può nascondere del tutto il fatto che il dopo guerra, qui come a Sarajevo, ha sancito più della guerra stessa una divisione etnica rigida che appare più forte di qualsiasi confine tracciato a tavolino. La multietnica Bosnia del 1992 non esiste più. Esistono le bosnie croata-serba-musulmana costrette a convivere. Non si parla volentieri di quegli anni. Tutti cercano di dimenticare anche se i confini invisibili sono lì ad ammonire quello che si può e quello che non si può. Ritornare in questa città è un tuffo al cuore, un deja vu senza lieto fine. Sono passati venti anni da quei giorni di guerra, la città divisa e bombardata dall’altra parte della città, il ponte secolare simbolo di passaggio pace e mescolanza, distrutto volutamente, con sadismo, per fiaccare il morale dei difensori, non per ragioni “militari”. Quando ti avvicinavi al ponte un “don’t forget !” su di un masso ti ammoniva. I giardini trasformati in cimiteri, le vie da percorrere a tutta velocità, le scritte “pazi sniper!”, il minareto mozzato da una cannonata e quell’edificio crivellato e distrutto su cui qualcuno aveva tracciato un grande “Mir !”. La lapide sulla facciata di un palazzo dove erano morti i giornalisti italiani Ota, Luchetta e D’Alessandro.
Eravamo partiti dall’alta maremma, io e Giancarlo, stufi delle chiacchere, mettendo su in pochi giorni un comitato di solidarietà, cibo, medicinali, e poi un furgone prestatoci dalla Caritas. Destinazione Trieste con l’idea di aggregarci al primo convoglio di volantari che portassero aiuti umanitari in Bosnia. Trovammo solo una carovana di furgoni organizzati da Radio Maria, con loro anche vecchie conoscenze, Ovidio Bompressi, Erri De Luca, una strana mescolanza tra i parà della Madonna di Medjugorje e gli ex duri di Lotta Continua. Poi a Mostar incontrammo dei ragazzi di Bergamo, avevano messo su una organizzazione efficiente con viaggi mensili, decine di famiglie prese in affidamento. Erano davvero un bel gruppo autogestito e bene assortito, si chiamavano “Mir sada”. Legammo subito, stringemmo con loro un sodalizio che durò tutta la guerra. L’animatore infaticabile del gruppo era Vittorio Porretta, una forza della natura sorridente, il volto migliore del’italietta spesso opportunista e menefreghista. E’ venuto a mancare improvvisamente e prematuramente alcuni anni fa. Pochi si ricordano di lui in questo Paese smemorato e a tutt’altro interessato.
Le persone che assistevamo ci davano molto di più di quanto da noi ricevessero, ricordo che anelavano alla pace ma non si facevano troppe illusioni sul futuro. Con quel ponte se ne era andata la loro storia. “I ponti si possono ricostruire, la convivenza pacifica no” mi disse uno di loro. Ecco, ripenso che la profezia di quel ragazzo si è avverata, e sotto la superficie di questa Mostar ripulita non batte più il cuore dei giorni della solidarietà.
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