di Valentina Severin
Venne trovato morto sulle scale di casa, l’11 aprile 1987, Primo Levi. In molti pensarono al suicidio, ma l’ipotesi non venne mai confermata.
PERCHÉ IL SUICIDIO? – Perché togliersi la vita, dopo essere scampato alla morte ad Auschwitz e alle fatiche del rientro a casa, dalla Polonia all’Italia? E perché a quarantadue anni di distanza?
“Io sono stato vicino al suicidio, all’idea del suicidio, prima e dopo il Lager, ma mai dentro il Lager”, scrive Primo Levi. “Il suicidio è un fatto filosofico, è determinato da una facoltà di pensiero”.
Più del trauma della prigionia, degli stenti, delle umiliazioni e di quella violenza arbitraria, è stata forse la delusione a tormentare Primo Levi durante e dopo l’esperienza ad Auschwitz.
DIVERSITÀ – Classe 1919, Levi non fu mai un ebreo praticante. Le tradizioni e i costumi degli antenati spagnoli e provenzali, raccontati nel “Sistema periodico”, non gli appartennero mai, tanto che fino all’iscrizione alla Facoltà di Scienze dell’Università di Torino, non percepì completamente la propria “diversità”.
“La liberazione universitaria ha coinciso con il trauma di sentirmi dire: attenzione, tu non sei come gli altri, anzi, vali di meno – scrive Levi – sei avaro, sei uno straniero, sei sporco, sei pericoloso, sei infido. Ho reagito inconsapevolmente accentuando l’impegno nello studio”. Zelo che nel 1941 lo portò a laurearsi con il massimo dei voti.
AUSCHWITZ – L’Italia degli anni Quaranta per un neolaureato ebreo non rappresentava un ambiente particolarmente accogliente, ma Levi riuscì comunque a crearsi una posizione dignitosa, trovando impiego come chimico prima a Lanzo e poi a Milano. Fu l’unione al gruppo partigiano operante in Val d’Aosta a costargli, nel dicembre 1943, la libertà e metterlo faccia a faccia con l’orrore e l’assenza di Dio.
Dapprima deportato al campo di Carpi – Fossoli, nel 1944 Levi fu trasferito ad Auschwitz. Vi uscì nel 1945, quando l’avanzata dei russi costrinse i tedeschi alla fuga. Preoccupati di fuggire, i nazisti abbandonarono i malati al loro destino, trascinando con sé solo gli abili al lavoro. Tra i dimenticati c’era anche Primo Levi, colpito da scarlattina.
SALVATO – Il racconto del lungo e avventuroso rientro in patria, attraverso la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria e l’Austria è affidato alle pagine de “La Tregua”, scritto nel 1962.
Con il senno di poi, Levi attribuì la propria sopravvivenza nel Lager a una combinazione di fattori, in particolare la conoscenza del tedesco e la carenza di manodopera alla fine del conflitto. Ma non all’intervento divino.
NON C’È DIO – “Devo dire che l’esperienza di Auschwitz – racconta Levi – è stata tale per me da spezzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto… C’è Auschwitz, quindi non c’è Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo”.
E fu questa ossessione a dettargli le intense pagine di “Se questo è un uomo”, scritto di getto nel 1946: “Ho cercato di scrivere le cose più grosse, più pesanti, e più importanti – spiega Levi – Mi sembrava che il tema dell’indignazione dovesse prevalere”.
Placata la sete di raccontare, restava il bisogno di rielaborare, per darsi delle risposte. Meditazione che accompagnò Levi fino alla fine e che, forse, gli offrì come soluzione dell’enigma solo il buio della morte.
SOMMERSO – Il senso di abbandono da parte di un Padre, troppo lontano per occuparsi delle vicende umane, emerge nella summa delle riflessioni di Primo Levi: “I sommersi e i salvati”.
Pubblicato nel 1986, “I sommersi e i salvati” ripercorre l’esperienza del Lager con occhio maturo, indagandola, analizzandola e ricomponendola, nel tentativo di capire perché ci sia stato Auschwitz e perché, quindi, non ci sia Dio.
A venticinque anni di distanza dalla sua morte, l’interrogativo che ha logorato Primo Levi è ancora lì, inquietante: perché Auschwitz?
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