Testo di Joshua Evangelista, foto di Valerio Polici
L’articolo che vi proponiamo è un’inchiesta di Frontiere News pubblicata dall’Unità lo scorso 30 marzo.
Una volta era una casa di riposo per anziani e un centro diurno per malati di Alzheimer. Un’eccellenza della sanità romana che dava lavoro a 60 persone: due mega strutture immerse nel verde, con un giardino sensoriale e un grande orto. Poi a un certo punto il terreno su cui è sito il centro Roma II di Casal Boccone viene venduto dal Comune di Roma nell’ambito di un progetto residenziale da 220mila metri cubi con torri di 16 piani alte fino a 61 metri. Gli anziani vengono trasferiti altrove e il centro diventa una carcassa di cemento in attesa di essere seppellita. Fino all’8 gennaio, quando gli attivisti per il diritto alla casa dei Blocchi precari metropolitani occupano la struttura.
Da allora Roma II ospita 120 famiglie eterogenee per etnia e contesto di provenienza. Romeni, ucraini, bulgari, nordafricani, brasiliani, rifugiati politici dal Darfur così come tanti italiani provenienti dalla periferia di Roma. Un laboratorio di integrazione che in brevissimo tempo diventa una grande famiglia, un villaggio con un’organizzazione del lavoro rigida ed equa nel quale gli abitanti vivono con ordine e partecipazione. «Qui ci rispettiamo tutti, i nostri bambini giocano insieme e se qualcuno non ha i soldi per la spesa se li fa prestare dagli altri», racconta Mohamed, fornaio egiziano da quindici anni in Italia e con un figlio di un anno.
Come tanti altri si è rivolto al Bpm perché sfrattato. «Non pagavo l’affitto e sono stato cacciato dal mio padrone di casa, una brava persona. È una cosa brutta, mi sentivo come un ladro, ma cosa avrei potuto fare? Con 900 euro al mese come fai a pagare un monolocale che ne costa 700 e contemporaneamente a dar da mangiare ai tuoi figli?». Gli fa eco Maria (il nome è di fantasia), una cuoca cilena naturalizzata italiana, dal ‘78 a Roma e dall’82 in attesa dell’assegnazione di una casa popolare. È una delle madri morali di questa insolita famiglia e quando torna dal lavoro viene sempre circondata dagli abbracci dei ragazzini della struttura: «Sono terrorizzata, se per puro caso il mio capo scopre dove vivo mi licenzia».
Qui a Casal Boccone le regole sono poche ma chi non le rispetta viene immediatamente cacciato. Al cancello d’ingresso e sul tetto ci sono turni di guardia 24 ore su 24 e per tre volte a settimana nessun uomo può essere esentato dalla vedetta. La pulizia viene gestita attraverso la divisione dei lavori tra le famiglie, che viene coordinata da un responsabile per ogni piano.
Ma vivere in questa comunità non implica solo obblighi. I giocattoli sono pochi e i tanti bambini li condividono nello sterminato cortile, sotto l’occhio vigile delle mamme e di chi è di turno in vedetta. I più grandicelli passano il tempo da una camera all’altra in un clima cameratesco, magari aggiornando lo status di Facebook da uno dei pochi pc con connessione a internet.
A breve partiranno laboratori di serigrafia e fotografia e in due occasioni i cancelli del centro sono stati aperti per due eventi pubblici, in cui i giovani hanno unito le loro forze e improvvisato mini concerti, giochi per bambini e persino uno spettacolo teatrale con ragazzi down. «Un modo per fare conoscere la nostra situazione ai nostri vicini», ci spiegano con molta soddisfazione. Tra i più impazienti di mostrarci la propria stanza c’è il 26enne marocchino Omar «MacGyver», come è stato ribattezzato dagli altri occupanti. «A febbraio abbiamo davvero sofferto il freddo, quindi ho pensato di crearmi io una stufetta«, ci dice con fierezza indicandoci un groviglio di fili legati ad un vecchio termosifone. «Il problema è che funziona davvero bene e tutti vogliono venire nella mia stanza».
Con riscaldamenti precari e la costrizione di cucinare attraverso fornelli da campeggi, quelli che hanno ingegno e capacità manuali diventano figure fondamentali. È il caso di Ivano, una sorta di tuttofare del villaggio: gestisce la faticosa manutenzione dell’immenso giardino, si occupa del monitoraggio del sistema idraulico e ripara gli elettrodomestici degli altri abitanti. È lui che ci fa fare il giro della struttura, ci mostra le «stanze segrete» dei sotterranei e la grande cappella. Poi ci fa entrare nella sua casa, la camera 303, dove con orgoglio ci mostra un televisore appoggiato su di un mobile. «Me l’hanno regalato da pochissimo. Quello vecchio è stato lanciato dal terzo piano dalla polizia il 9 marzo, quando hanno tentato cacciarci».
Quel giorno a Casal Boccone erano arrivati diversi blindati della polizia, pronti a sgomberare Roma II. Ivano era uno dei pochi uomini che in quel momento si trovavano nella struttura, visto che tutti gli altri erano al lavoro o in Centro nella manifestazione contro la Tav. Così è stato lui a organizzare la “resistenza”, insieme alle donne e ai bambini. Ed è salito persino su un parafulmine, minacciando di buttarsi qualora fossero stati sgomberati. «Noi da qui non ci muoviamo fino a quando non provvedono a darci una casa». Alla fine la polizia è andata via, ma tutti sanno che tornerà presto. «Viviamo nel terrore, ho paura di fare la fine delle altre due ragazze incinte, che hanno perso i loro bambini per lo stress», racconta Maha, poco più che ventenne, mentre si accarezza il pancione nella penombra della sua stanza. «Non so se il mio bambino sarà maschio o femmina e per ora non mi interessa, voglio solo che sopravviva e che possa crescere dentro una casa».
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