“Stato d’Italia”: tre anni di testimonianze di vita negli scatti di Emiliano Mancuso

Intervista di Teodora Malavenda, foto di Emiliano Mancuso

Stato d’Italia, prima di essere un libro e una mostra, è un grande progetto documentario sull’Italia di oggi. Tre anni di intenso lavoro tra testimonianze e racconti di vita vissuta ripresi in giro per il Paese. Protagonisti di questa avventura il fotografo Emiliano Mancuso, i giornalisti Andrea Milluzzi, Laura Eduati, Angela Mauro, Davide Varì e la photoeditor Renata Ferri. Storie restituite in uno splendido bianco e nero volutamente adottato per ripristinare la verità nella sua interezza. Immigrazione, sfruttamento, disoccupazione, affari illeciti, promesse disattese, politici dormienti, indignazione, ribellione e fine di un’epoca. Questo e molto altro in un libro da leggere ma soprattutto da vedere.

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“Stato d’Italia” riassume tre anni di viaggi in giro per l’Italia. Immagino sia stato anche una buona occasione per conoscere da vicino la nazione in cui viviamo.

In questi anni mi sono reso conto che noi italiani parliamo tanto e male del nostro Paese pur conoscendolo poco. Quest’esperienza mi ha permesso di guardare all’Italia come ad una terra straniera in cui c’è sempre qualcosa da scoprire e da cui c’è sempre qualcosa da imparare.

Accade sempre più spesso che il fotografo durante i suoi lavori non venga affiancato dal giornalista. Nella realizzazione di questo progetto invece è stato fondamentale il contributo di Laura Eduati e degli altri. Come siete riusciti a conciliare questi due linguaggi, quello della scrittura e quello delle immagini, e proporli in un unico progetto?

Nella gerarchia del giornalista italiano, il fotografo non occupa quasi mai un posto rilevante forse perché da noi l’immagine è considerata illustrazione del testo. I giornali non investono sull’immagine in quanto linguaggio autonomo, non considerano essa stessa racconto giornalistico. Quindi viene da sé che per i giornalisti non sei uno di loro. Fortunatamente nel caso di “Stato d’Italia” abbiamo voluto ricostituire la coppia tradizionale (giornalista/fotografo) avviando un lavoro di scambio, confronto e anche di scontri. Non è stata un’impresa facile né una coincidenza immediata. Rispetto al libro la nostra idea era di evitare di ridurre l’immagine a semplice illustrazione del testo e al contempo evitare che il testo divenisse didascalia. Abbiamo cercato di costruire due percorsi paralleli lasciando alla fantasia del lettore la capacità di individuare letture interne e personali.

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“Stato d’Italia” è un chiaro esempio di come, per raccontare una storia, non sia necessario andare all’estero. Anche l’Italia, oggi più che mai, offre tanti spunti interessanti su cui lavorare. Allora perche molti fotografi emigrano? Qual è la realtà foto-giornalistica italiana?

Viaggiare è l’essenza del reportage ed è naturale che il fotoreporter giri il mondo testimoniando realtà differenti. È stato così anche per la generazione precedente la mia, per intenderci quella di Pellegrin e Zizola. Il viaggio e il raccontare mondi lontani è stato il fondamento della loro carriera e del loro successo.

C’è anche da dire che il peso dell’Italia nello scacchiere mondiale non è molto elevato, quindi una storia costruita in Italia non ha lo stesso valore di una storia costruita altrove e ripresa dalla stampa internazionale.

Non trovo cambiamenti sostanziali nel fotogiornalismo italiano. I fotografi continuano a partire ottenendo successi all’estero e sapendo che a qualcuno toccherà raccontare le faccende di casa. E questa volta è successo a me!

L’Italia che emerge da questo libro è l’Italia che volevate raccontare?

Si anche perché abbiamo avuto le idee molto chiare sin dall’inizio. Volevamo cercare “la polvere sotto il tappeto” e credo che ci siamo riusciti. Se il governo berlusconiano non fosse caduto avremmo continuato il viaggio ma nel momento in cui tutto è finito ci siamo detti che per l’Italia iniziava un nuovo capitolo destinato ad un altro libro.

Il progetto nasce sul web e per il web. Solo successivamente si traduce in un libro e in una mostra. Una scelta inevitabile o semplicemente la conclusione naturale di un lavoro durato tre anni?

Inizialmente volevamo realizzare delle storie da proporre alle riviste e con i proventi finanziare i viaggi. La cosa però non ha funzionato perché abbiamo trovato poco interesse da parte della stampa. Qualche articolo è stato pubblicato sull’Espresso, su Diario e su Vanity Fair. Ma in ogni caso si trattava sempre di uscite episodiche e non sufficienti per affrontare le spese. Da qui l’idea, già diffusa nei paesi anglosassoni, di aprire un blog e di coinvolgere i lettori tentando la via del crowd funding. L’esperienza da una parte è andata bene perché, pur non avendo investito denaro in comunicazione, siamo riusciti a raggiungere un buon numero di accessi e di utenti e a raccogliere soldi. Andando avanti però ci siamo resi conto che dovevamo attribuire un valore ulteriore al materiale raccolto. E così il libro e poi la mostra hanno rappresentato la naturale conclusione di un impegno durato tre anni.

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Un grande supporto sia professionale che morale ti è stato dato da Renata Ferri. Il suo intervento quanto ha influito sulla scelta delle storie da proporre?

La presenza di Renata è stata fondamentale sia nella costruzione del progetto sia nella fase di editing. L’ultimo capitolo esiste grazie a lei. Ha insistito molto sulla necessità di spingersi fino alle porte del Parlamento. Quel capitolo attribuisce un valore aggiunto al progetto e io me ne sono reso conto solo in una fase successiva. Se non fosse stato per la sua tenacia la conclusione avrebbe assunto un’altra forma.

Qual è, secondo te, il rapporto etico tra il fotografo e il fotografato?

Impossibile dare una risposta univoca a questa domanda. Sono infinite le variabile che si presentano di volta in volta davanti agli occhi del fotografo. Ritengo che in ogni caso sia sempre giusto fare la foto perché l’atto di scattare sancisce la partecipazione attiva del fotografo al contesto in cui opera. È il suo modo di dare voce alla realtà di cui è testimone.

Quanto è importante la fotografia estetica nella produzione di un lavoro documentario?

È fondamentale. Una bella foto accostata ad un argomento importante, anche se difficile e drammatico, aiuta a veicolare il contenuto giornalistico.

Perché la scelta di utilizzare il bianco e nero?

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Innanzitutto per rifarmi ad una tradizione reportagistica che fa del bianco e nero, ormai da decenni, il suo strumento principale. In secondo luogo perché sono cresciuto con l’avvento delle tv berlusconiane che per 20anni hanno mostrato l’Italia del Drive In e del Mulino Bianco, dando un’immagine fuorviante di benessere e di opulenza. Con il bianco e nero ho voluto resettare tutto ciò e pulire gli occhi da tutte queste incrostazioni, denunciando la polvere sotto il tappeto di cui parlavo prima.

EMILIANO MANCUSO

Nato a Roma nel 1971, ha iniziato tardi a pensare alla fotografia come mezzo espressivo per documentare la storia e rappresentare la realtà. Inizialmente era interessato all’immagine come problema filosofico, sino a laurearsi in Filosofia nel 1997 per poi specializzarsi in Estetica. Lasciati gli studi postuniversitari, all’età di 28 anni ha iniziato a lavorare nel fotogiornalismo. Nel 2004 ha vinto il premio Canon come Miglior Progetto, nel 2005 il premio FNAC. Nel 2006 ha pubblicato Made in Italy, libro collettivo sulla crisi in Italia, e nel 2008 Terre di Sud, sul Mezzogiorno. Nel 2011 ha pubblicato il libro “Stato d’Italia”.

www.emilianomancuso.it

 


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