Foto e testo di Stefano Morelli
Phnom Penh, 2010
“Hey man, massage?” chiedono ragazzine sedute in attesa di fronte a centri per massaggi. Nel quartiere di Svay Pak altre ti salutano ed invitano ad entrare a bere qualcosa nei loro bar. Capelli corvini e minigonne, in equilibrio su tacchi sempre più precari. Il troppo alcol bevuto rende tutto più difficile. Sono alcune delle 15 mila sex workers che popolano la vita notturna della capitale cambogiana. Entrando, tra i sorrisi e i benvenuto, abbiamo bisogno di qualche secondo per abituarci alle luci soffuse. In questi bar a luci rosse gli avventori sono quasi tutti bianchi. Alcune ragazze parlano tra loro sedute ad un tavolo. Altre sono impegnate con giochi in scatola coi loro clienti. Al primo piano c’è anche la possibilità di giocare a biliardo. Da lontano sembrano bambine. Poi, avvicinandoti, ti accorgi che possono avere sui 25-30 anni. Un italiano seduto su uno sgabello mi racconta che ormai i controlli in Cambogia contro il turismo sessuale minorile sono molto serrati. “Qualcosa c’è ancora, ma non più come prima. Prima c’era la Tailandia, poi hanno iniziato i controlli e tutto si è spostato in Cambogia. Adesso che le maglie si sono strette anche qui, tutto si sta spostando in Laos”. Le ragazze parlano un inglese semplice, ma efficace. I loro inviti non sono mai volgari. Cercano il contatto fisico. Una carezza. Al momento giusto bisbigliano qualcosa nell’orecchio e ti prendono per mano. Bastano pochi dollari. Mi dicono che loro fanno soltanto sesso sicuro. Utilizzano sempre il preservativo. Ma viene da pensare che con qualche dollaro in più si possa davvero ottenere qualsiasi cosa. Come se il pericolo HIV fosse estinguibile pagando una piccola sovrattassa. Al momento la percentuale di sieropositivi e malati è, non a caso, la più elevata di tutto il continente asiatico. Sognano altro per il loro futuro, ma devono pur sopravvivere. E questo lavoro permette la sussistenza anche alle famiglie che spesso vivono nelle zone rurali. Le più brave non arrivano a 80 dollari al mese.
Stefano Morelli, laureato in Psicologia, è fotogiornalista. Specializzato in reportage sociali, sta portando avanti un progetto personale sulla migrazione in Italia. Collabora con la cattedra di Antropologia Visuale dell’Università di Firenze.
Assieme a Fabrizio Del Dotto ha fondato Tripodphoto, un collettivo di fotografi e video-makers specializzato in fotogiornalismo, reportage sociali e viaggi.
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www.tripodphoto.com
Rubrica a cura di Teodora Malavenda
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