Foto di Alessandro Grassani
Ci racconti il percorso che hai fatto per diventare fotografo?
Ho studiato fotografia all’Istituto Riccardo Bauer di Milano e, subito dopo, ho iniziato a lavorare come assistente per diversi fotografi nell’ambito della fotografia pubblicitaria. Una breve parentesi, perché da subito avevo ben chiaro in mente che cosa fosse la fotografia per me. Ho deciso di diventare fotografo per raccontare storie, per mostrare agli altri quello che, per diverse ragioni, non hanno l’ opportunità o il potere di vedere o conoscere. “Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi”, questo diceva Henry Luce, fondatore della mitica rivista Life nel 1936.
Per tornare alla tua domanda, dopo l’esperienza in studio ho iniziato a lavorare per alcuni quotidiani coprendo l’attualità nazionale e contemporaneamente lavoravo ai miei progetti personali soprattutto in Iran, Israele e nei Territori Palestinesi. Nel 2008 sono entrato a far parte dell’agenzia Grazia Neri e – dopo il suo fallimento – ho iniziato la mia collaborazione con LUZphoto, oggi una delle realtà più interessanti della fotografia in Italia.
C’è un fotografo a cui ti sei ispirato, magari all’inizio della tua carriera?
William Eugene Smith e Robert Frank. Tra i contemporanei cito due italiani: Paolo Pellegrin e Alex Majoli. Oggi la qualità nel panorama internazionale è altissima, si vedono continuamente lavori stupendi di giovani fotografi.
Il tuo ultimo lavoro “Environmental migrants: the last illusion” ha vinto diversi premi, ultimo il PX3 Paris. Ce ne vuoi parlare?
Il 2008 ha segnato il punto del non ritorno: per la prima volta nella storia dell’uomo c’è più gente che vive nelle città che nelle campagne. Le città cresceranno sempre di più a causa dei cambiamenti climatici e dei profughi climatici, destinati a diventare nel giro di pochi decenni, la nuova emergenza umanitaria del pianeta.
Stando a una previsione delle Nazioni Unite, nel 2050 la Terra dovrà affrontare il trauma rappresentato da 200 milioni di profughi climatici. Tutte persone che, sempre secondo l’ONU, non “sbarcheranno” nelle nazioni ricche, ma cercheranno nuove forme di sostentamento nelle aree urbane dei loro Paesi d’origine, già sovraffollate e spesso poverissime. Il 90% di questa migrazione avverrà proprio nei Paesi meno sviluppati, con trasferimenti dalle campagne verso le parti più degradate della città conosciute come slums. Cosi accadrà che i Paesi più poveri, quelli che meno hanno contribuito ai cambiamenti climatici, saranno i più colpiti da questo fenomeno a causa della mancanza di fondi da investire in politiche alternative di sviluppo nelle zone non più abitabili. Le città di questi paesi sono già oggi vittima dei cambiamenti climatici e sono destinate a crescere sempre di più tra disoccupazione e povertà. Il mio progetto “Environmental migrants: the last illusion” include tre capitoli: Ulaan Baator – Mongolia, Dhaka – Bangladesh e il terzo che verrà realizzato nei prossimi mesi Nairobi – Kenya.
La scelta di questi tre paesi e città segue l’intenzione di rappresentare l’intera gamma dei cambiamenti climatici che stanno affliggendo il pianeta in tre diversi Paesi per spiegare il fenomeno della migrazione ambientale su larga scala: dall’estremo freddo in Mongolia ai cicloni, alluvioni e all’innalzamento del livello del mare in Bangladesh, fino al processo di desertificazione nel continente africano. Tutti e tre i capitoli sono caratterizzati da uno stesso percorso narrativo: documentare perché questa gente fugge dalle campagne, per poi raccontare le storie dei migranti ambientali che hanno scelto di cercare una vita migliore in città, senza trovarla. La loro “ultima illusione”, appunto.
Oggi il mercato editoriale vive un momento di crisi. Come pensi se ne possa uscire?
La speranza di molti è che internet, che insieme al digitale ha dato un duro colpo al fotogiornalismo, possa in qualche modo salvarlo. Mettere a pagamento i giornali on-line, dando un adeguato riconoscimento economico per la pubblicazione dei reportage dovrebbe essere il primo passo. Almeno credo.
Personalmente penso che oggi per sopravvivere un lavoro debba rivolgersi al mercato globale dell’editoria nella speranza di essere pubblicato più volte, ma deve anche essere adatto per mostre, premi, grant e fondazioni: pensare a 360 gradi su come veicolare il proprio lavoro, per trarne il giusto profitto.
Alla luce dei nuovi modelli comunicativi e delle nuove fruizioni cross-mediali, che futuro vedi per il fotogiornalismo?
Domanda troppo difficile. Tutto è ancora così poco chiaro, internet ancora non paga abbastanza e i reportage multimediali sono solo di vetrina.
Quanto conta l’etica nel tuo lavoro? È più importante il rispetto per la sofferenza altrui o la necessità di documentare?
L’etica è la cosa più importante, ma bisogna trovare le giuste misure, non è solo nero o bianco. Provo disprezzo per quel giornalismo mordi e fuggi, per quel circo mediatico al quale siamo abituati con la spettacolarizzazione della sofferenza altrui durante tragici eventi di attualità. Mi sono trovato in molte situazioni di estrema sofferenza e credo che la cosa più importante sia quella di far capire al soggetto che stai fotografando il profondo rispetto che provi per lui e l’utilità di quello che stai facendo. Non serve parlare la stessa lingua, a volte basta uno sguardo: bisogna essere delle persone molto sensibili e valutare anche l’effettiva necessità di fare quello scatto. Personalmente non lavoro molto sui grandi e tragici eventi anche per questo motivo, mi mette rabbia vedere alcuni colleghi al lavoro, preferisco essere da solo davanti al mio soggetto, prendermi i miei tempi e dare alle persone che fotografo quello che si meritano: il giusto rispetto. E poi c’è sempre molto di più da raccontare quando tutti decidono di andare via.
Che consigli daresti a un giovane fotografo in procinto di cominciare la professione?
Essere curioso, impegnarsi su un progetto da sviluppare nel lungo periodo con passione e originalità. Sono tempi difficili e credo che un forte progetto personale sia la sola cosa in grado di darti una certa visibilità. Uno dei consigli più utili che hanno dato a me è quello di camminare molto perché, se “il vero giornalismo è quello che si fa con la suola delle scarpe”, per la fotografia le cose non sono diverse. Una buona foto va cercata a lungo.
Il prossimo progetto?
Entro la fine del 2012 voglio concludere il mio progetto “Environmental migrants: the last illusion” con il terzo e per ora ultimo capitolo Nairobi – Kenya, poi si vedrà. Sto già pensando ad altro, ma tutto è ancora in fase embrionale.
Alessandro Grassani, nato a Pavia nel 1977, si diploma in fotografia all’Istituto Riccardo Bauer di Milano. Ha iniziato lavorando nella fotografia pubblicitaria ma poi la sua attenzione si è spostata verso importanti temi di attualità internazionale e al reportage sociale, realizzando reportage da oltre 30 Paesi nel mondo.
Nel 2011 ha iniziato un nuovo progetto a lungo termine chiamato “Environmental migrants: the last illusion” documentando in giro per il mondo la vita della gente costretta a emigrare a causa dei cambiamenti climatici e senza nessuna alternativa all’ illusione di una vita migliore in città.
I suoi lavori sono stati premiati al PX3 International Award, Sony World Photography Awards, Days Japan International Awards, Luis Valtuena Humanitarian Photography Award, Premio Lucchetta-Hrovatin International Award for the best journalistic photograph, IPA International Photography Awards, SOFA Global World Photo Award, Premio Amilcare Ponchielli, Memorial Mario Giacomelli e al premio FNAC.
www.alessandrograssani.com
Rubrica a cura di Teodora Malavenda
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