Le prossime Olimpiadi londinesi saranno sicuramente ricordate come i giochi dei divieti: a rimetterci sono stati in primis quelli del “pranzo a sacco”, divieto di consumare bevande e cibo portati dall’esterno. Ma fa molto più discutere il divieto di indossare o comunque esporre simboli appartenenti a partiti/ideologie politiche o stati non riconosciuti ufficialmente dalle Nazioni Unite. Questo per tutelare, si legge nel comunicato, la sicurezza degli ospiti e degli atleti delle nazioni “ufficiali”.
Le Olimpiadi, come del resto tutte le manifestazioni che hanno una grande portata mediatica, sono state sempre un palcoscenico per manifestazioni o per, semplicemente, esporre e rendere visibile dei disagi più o meno importanti, ed è sicuro che, nonostante il divieto, qualcuno esporrà una maglia o comunque qualche simbolo delle propria terra oppressa, che reclama quanto meno più libertà e dignità. La lista degli stati “non ufficialmente riconosciuti” è piuttosto nutrita, e si va dal semplice fazzoletto di terra a vere e proprie nazioni, come per esempio il Kurdistan. Ma neanche i Papa boys dormiranno sonni tranquilli: nella discutibile lista c’è anche Città del Vaticano.
In ogni caso, sentite le voci che ultimamente girano sull’inadeguatezza dei controlli e sulla scarsa preparazione degli addetti, quest’ultima notizia fa presupporre che il comitato organizzatore dei giochi non abbia voglia d’avere ulteriori grattacapi: già il mese scorso il CIO aveva vietato ad una giovane atleta kosovara, Majlinda Kelmendi, di partecipare ai giochi olimpici in quanto “rappresentante di una nazione che non esiste”; il Kosovo, riconosciuto da sole 91 nazioni ( tra cui Stati Uniti e Inghilterra ) dei 193 membri del CIO, non parteciperà naturalmente alle Olimpiadi, anche perchè tra gli “scettici” figurano la Cina, la Serbia e la Russia, solo per citarne alcuni.
Emiliano Rossano
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