Vivere da “muzungu” in Burundi, impastando i mattoni per una nuova società

Antea Paviotti condivide con i lettori di Frontiere News la sua esperienza a Bujumbura (Burundi) durante i Camps du Travail organizzati dal Centre Jeunes Kamenge per ricostruire i quartieri nord della città, devastati dalla guerra del ’93-’96. Durante questi campi di lavoro si fabbricano gratuitamente mattoni di terra per i giovani che vogliono costruire la loro prima casa.

“Muzungu bombon, hakuna bombon!”. Muzungu, dammi una caramella; non ci sono caramelle. I bambini delle strade di Bujumbura conoscono a memoria la cantilena e gridano a più non posso appena scorgono un bianco in lontananza.
Gli enfants de la rue amano i bazungu, i bianchi (muzungu è usato al singolare): si divertono a rincorrerli, attorniarli, prenderli per mano, toccare la loro pelle. Li trovano spassosi, e allo stesso tempo ne sono incuriositi. Inoltre, sanno che i bianchi sono ricchi, per questo chiedono loro le caramelle.

Ma l’atteggiamento nei confronti del muzungu non è sempre lo stesso. Un giorno mi è capitato di vedere due bambini che giocavano sulla strada. Uno dei due era albino. Il bambino nero mi ha chiamato, ridendo: “Muzungu!” e mi ha mostrato il suo compagno albino. “E’ muzungu come te!”. Un’altra volta, passeggiando per la strada, sono passata davanti alla casa di una famiglia che stava tagliando la canna da zucchero. Mi hanno visto e: “Muzungu, vuoi la canna da zucchero?”. Avrei accettato, se solo avessi avuto qualcosa da lasciare loro per ringraziarli. Ma, sorridenti, mi hanno assicurato che me la regalavano, quella canna da zucchero, non volevano niente in cambio. Erano già contenti di parlare a un bianco, stringergli la mano e regalargli qualcosa.

Cinque minuti dopo, camminando verso il Centro, con la mia bella canna in mano, ho incontrato un vecchio che ha cominciato a implorarmi: “O muzungu, non mi battere!”. Si riferiva al bastone che tenevo in mano. Certo io non avevo nessuna intenzione di usarlo come arma, ma quel vecchio, attore nato, aveva suscitato l’ilarità di tutti i presenti.

Generalmente, il sentimento nei confronti dei bazungu è di curiosità mista a timore. Molte donne e molti bambini osservano i bianchi da lontano, diffidenti, e si ritraggono quando si avvicinano. Altri invece, pur non conoscendoli, vanno a salutarli e stringere loro la mano, senza tuttavia presentarsi.

Una volta mi è capitato di vedere una vecchia signora che mi voleva salutare, mentre ero al rubinetto pubblico, ma non osava chiamarmi. Il resto della gente che, come me, aspettava il suo turno per prendere l’acqua la incitava ad avvicinarsi. La signora sorrideva timorosa ma restava al suo posto. Non ero in grado di spiegarle che non le avrei fatto niente, che ero una persona umana come lei. Alla fine la donna si è fatta coraggio e mi ha stretto la mano, con gli occhi bassi, poi è scappata. Il pubblico rideva divertito.
Non so descrivere quanto fastidioso sia sentirsi chiamare “muzungu”. Il termine non ha una connotazione esplicitamente negativa, ma indica una persona che ha la pelle bianca, in opposizione ai neri d’Africa. Quando un bianco viene chiamato “muzungu”, tutte le altre sue identità vengono cancellate. Ed è questo l’aspetto più umiliante, degradante, della discriminazione. Arrivi a essere una nullità, un significante vuoto, per via di una caratteristica che ti appartiene fin dalla nascita, come il colore della pelle, di cui nessuno ha “colpa”, né deve averne. Ho provato, per una volta, a stare “dall’altra parte”, tra quelli che vengono discriminati. Non solo ho cercato di comprendere, ma ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire essere vittima di razzismo. E’ una delle cose più inumane che esistano. Eppure è così diffusa, in tutto il mondo.

Quando sei muzungu, non sei più sorella, amica, campeuse, italiana, turista, studentessa: sei soltanto un individuo con la pelle bianca. Questa è la tua unica identità. E per questo sei alieno. Diverso. Incommensurabile. Non vieni conosciuto per quello che stai facendo, quello che ti ha spinto a venire in Burundi, quello che hai intenzione di fare nella vita. Sei soltanto uno con la pelle bianca, quindi uno che è ricco e può tutto, uno che vive agiato e può regalare soldi, vestiti e oggetti di ogni sorta come se piovesse, tanto i soldi non gli mancano. Tutto il resto non conta, anzi, non esiste.

Inoltre, sei muzungu, quindi non sai fare le cose all’africana: non sai fare i mattoni con la terra, non sei abituato a sporcarti, non ti siedi per terra, non sai lavare i piatti con dell’acqua che non è corrente. È vero, non lo so fare; ma ho due braccia e due gambe e una testa come voi e posso imparare a farlo.

Ai campi di lavoro estivi organizzati dal Centro Jeunes Kamenge di Bujumbura (www.cejeka.org) ho trovato l’opportunità di lottare contro questa concezione. Durante questi campi, cui ho preso parte per un mese, non si fabbricano soltanto mattoni di terra. Si gettano le basi per una nuova società. Anche se bianchi e neri sono così diversi, durante i campi si dimostra che essi possono lavorare insieme, imparare insieme, divertirsi insieme, scambiarsi esperienze, ridere e vivere alla stessa maniera. Anzi, non solo bianchi e neri, ma hutu, tutsi, twa, burundesi, rwandesi, congolesi, cristiani, musulmani, non religiosi: ognuno porta la sua differenza e il suo contributo alla società. Tutti i campeurs e gli animateurs lavorano per lo stesso obiettivo, non ci sono gerarchie interne ai gruppi, né divisioni del lavoro in base a qualsivoglia criterio. Dopo due settimane, i ragazzi vedono che anche tu, bianco, puoi “abbassarti” a fare i mattoni col fango, che anche tu mangi riso e fagioli come loro, che anche tu ti stanchi e hai le esigenze di tutti gli esseri umani.

Mi riempiva di soddisfazione essere chiamata col mio nome, dal mio gruppo di lavoro, o sentire la gente che passava per strada e non mi chiamava solo “Muzungu!” o voleva le caramelle, ma mi chiedeva stupita: “Muzungu, sai fare anche tu i mattoni?!”.
Ho chiesto ai bimbi della famiglia presso cui lavoravamo e agli enfants de la rue loro amici di non chiamarmi “muzungu” quando mi vedevano ma “Antea”. Alla fine del secondo campo, quando mi dirigevo al posto di lavoro assieme al mio gruppo, non si sentivano più i coretti assordanti: “Muzungu! Muzungu!” ma tutti i bambini della strada mi salutavano: “Antea! Antea! Antea!” e così mi accompagnavano entusiasti.

L’obiettivo, fare di tutti quanti un gruppo unico e compatto, non è facile e non sempre viene raggiunto agilmente. Ma bisogna cominciare dalle piccole cose se si vuole cambiare qualcosa in questo mondo. Quando riesci a farti chiamare col tuo nome, e a dimostrare di essere “uno di loro”, col cuore gonfio di gioia, sai di aver compiuto una piccola rivoluzione.


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