di Teodora Malavenda
Esordisce nel 2012 per Galassia Arte con Fiamme in fiore, il suo primo libro di poesie. Autore, Niccolò Bulanti, un poetà della contemporaneità, capace di emozionarsi e di emozionare senza ricorrere a particolari artefici. Poeta dicevamo. Ma anche operaio, blogger, rapper. Un’intervista, quella che segue, che può essere considerata un piccolo manuale di resistenza o forse un invito alla rivoluzione. Quella che si fa con le parole.
Operaio metalmeccanico e poeta. Come colleghi le due attività?
Non le collego affatto. Le due attività si mescolano nel quotidiano in quella che alla fine è la mia unica persona. Ispirazione, versi, mi raggiungono al lavoro come fuori. Mi raggiungono per colpirmi con i rumori assurdi dello zoo di ferro, mi raggiungono per chetarmi con il cielo azzurro che resta fuori dai capannoni.
Che rapporto intercorre tra la manualità (del lavoro in fabbrica) e la fantasia (del lavoro di poeta)?
Le mani in movimento, le mani che fanno, sono come le farfalle. Osservate come si muovono le mani di un lavoratore intento nel suo compito: ne posseggono tutte le traiettorie, sanno quando posarsi e quando svolazzare. Devono essere libere e possono concretizzare il concetto di potere nell’accezione del “posso fare qualsiasi cosa”. E le farfalle colorate non sono tra le più belle esternazioni concrete della fantasia? Le farfalle tessono il filo tra le mani dei lavoratori e la fantasia dei poeti.
L’Italia sta attraversando un periodo buio che di certo non sfuggirà alle pagine di storia. Precarietà, tagli alla cultura, classe dirigente scadente, difficoltà economiche (e potremmo estendere l’elenco…). Qual è il tuo pensiero in merito?
Il problema italiano si inscrive in quello di un’umanità in crisi poiché inserita in un sistema che si basa sul consumo che quindi non può essere eterno proprio perché consuma. Abbiamo un televisore in ogni stanza: che dobbiamo mettercene uno al collo?! E se non compriamo quello da appendere appunto al collo, i lavoratori non producono la domanda che non c’è e perdono il lavoro. In definitiva è colpa nostra questa “crisi” perché non vogliamo la tv che ci strangolerebbe?! Paghiamo quindi in termini di precarietà, di tagli vari, di assalti al pubblico e ironicamente anche in termini di “avarizia”: sei un lavoratore che risparmia perché il futuro è fosco? Allora sei colpevole nei confronti del tuo compagno che perde il posto perché non consumi! Queste logiche vanno rotte prima che quel televisore davvero ce lo facciamo penzolare sul petto. La crescita con la quale ci spronano, come la carota davanti all’asino, va fermata perché il gigante ha le ginocchia deboli e perché non è affatto una crescita per gli esseri umani. Tutti i problemi che sono elencati nella domanda si irradiano secondo me dalla malformazione economica, sociale, culturale esposta nell’esempio del televisore al collo.
Non sei mai stato un lettore accanito di poesie né hai mai avuto un poeta “del cuore”. È cambiato qualcosa dopo la pubblicazione del tuo libro?
Rimango largamente un ignorante sul tema. A parte il percorso didattico che prevede il solito programma di letteratura condiviso dagli studenti della mia generazione, prima di pubblicare il mio libro ho letto solo il Canto General di Neruda. Successivamente una raccolta di Agostinho Neto ed una di Nazim Hikmet. Apprezzate entrambe.
Un’altra tua grande passione sono i viaggi. So che di recente sei stato a Cuba. Pensi che il “modello Castro” possa avere ancora un senso oggi?
La stragrande maggioranza dei cubani con cui ho avuto a che fare a riguardo, da Cuba se ne vorrebbe scappare. E questo l’ho sentito con le mie orecchie. Tuttavia rifletto sul fatto che non è la Rivoluzione Cubana ad aver fallito quanto il fatto che l’essere umano sia fallimentare nella sua corruttibilità, nel suo egoismo. Per tanto, un sistema come quello capitalista che si centra su queste due attitudini pare non esser fallimentare solo perché dà alle persone quello che la parte peggiore di loro vuole. Ed allora si è appagati e ci si crede contenti. Credi non abbia più un senso un modello sociale che vuole dalle donne e dagli uomini qualcosa di meglio? O il continuare a sognarlo dopo 54 anni di colpi bassi tirati dall’impero statunitense e non solo? Potranno mai questi sogni finire in soffitta finchè vi saranno le persone? No, credo che queste cose non potranno mai fare il loro tempo a prescindere da qualcosa di molto meno astratto come un cubano che sogna MacDonald’s.
Il nome di un politico, quello di un regista, il titolo di una canzone.
Quando ci sono queste domande si rischia sempre di non render giustizia a qualcuno. In un frangente dove i politici sono i burattini di una sorta di reality show o conduttori televisivi di un programma dove si vincono o si perdono soldi, vorrei dire che di politici non ce ne sono più. Potrei indicare qualcuno del passato. Invece voglio provocare: il mio, il tuo, il vostro e quindi il nostro nome è il nome di un politico. Siamo noi la comunità e chi meglio del popolo, cosciente, sa cosa serve al popolo? Registi e canzoni, passo.
Cosa ci riservi per il futuro prossimo?
La domanda implica che qualcuno attenda qualcosa da me per il prossimo futuro. Questo mi rallegra, mi fa onore e mi colma di responsabilità. Stiamo illustrando, con un’amica, una raccolta di miei racconti brevi che marciano in equilibrio tra il reale e l’assurdo: l’equilibrio precario dove camminiamo quotidianamente. Ma al momento c’è questo libro, Fiamme in Fiore, pubblicato con Galassia Arte. Ve lo riservo per il presente.
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