di Lucia Pugliese
Ad Ortahisar, in Cappadocia, c’è un vecchio poeta di nome Ali che gestisce un negozio di chincaglieria. All’ingresso del suo esercizio ha posto un grosso barile, con un cartello scritto in inglese sul coperchio di legno: Leave your problems here, lasciate qui i vostri problemi. Io ho da lasciare la malinconia della partenza, la tristezza di chi deve andarsene da un luogo incantevole.
Siamo arrivati in Cappadocia, in turco Kapadokya, una bella mattina di metà agosto. Per giungere da Istanbul ci erano volute dodici ore, in autobus: forse sarebbe stato meglio prendere l’aereo, ma ero comunque riuscita a dormire e ci avevano servito the e dolcetti. “Benvenuta su Marte”, mi ero detta non appena avevo aperto gli occhi sul paesaggio arido intorno a noi. I pullman turistici ci passavano a fianco, sollevando polvere rosa e ocra e il sole batteva forte sulle rocce chiare. In questa regione dalla pietra può nascere qualunque cosa: case nella montagna, una chiesa incastonata su una parete riarsa, una città sotterranea dai cunicoli freschi e scuri.
Le distanze sono tali per cui non ci si può muovere a piedi: un motorino o un auto fanno al caso del viaggiatore. E vale la pena di farne di strada: per ammirare i paesaggi dalle sfumature delicate e le forme più strane che la natura è riuscita a disegnare. Prendete ad esempio la Rose Valley: una serie di formazioni rocciose rosate, curve morbide del colore dell’alba più dolce. Altrove, sagome bizzarre si stagliano contro il cielo limpido: i camini delle fate sembrano appartenere alla fantasia sfrenata di un bambino o di un folle. Ma le rocce non sono solo la dimora di creature effimere: al loro interno la gente aveva costruito le proprie abitazioni. Le meraviglie maggiori si trovano nelle città sotterranee: Derynkuyu, Kaimakly. Organizzate con dispense e canali di scolo per l’acqua, offrivano rifugio agli abitanti della regione durante le ripetute invasioni e le guerre. Oggi capita che siano abitate da piccoli e sonnacchiosi pipistrelli gialli. Forse mi sono detta, anche la fauna si è voluta adattare ai colori della terra.
Fin qui la Cappadocia turistica. Poi ce n’è un’altra. C’è l’aggirarsi come spettri per paesi semideserti, dove un cagnolino bianco sporco attende il padrone nella polvere e scodinzola felice per un poco d’acqua. Capita di finire in un’altra cittadina, questa volta popolata di bambini: i genitori sono al lavoro nei campi. Case povere, ruderi, fango per strada. Un robivecchi trasporta la sua merce su un asinello. La gente di ritorno dal lavoro viaggia a piedi lungo le strade assolate, facendo un casuale autostop: questi uomini dalla pelle bruna sono certi che qualcuno si fermerà a dar loro un passaggio di tanto in tanto. Ad Ortahisar, non serve allontanarsi molto dal negozio di Ali: via per una discesa, costellata di ripostigli stipati dietro porte colorate. Il blu è la tinta dominante: dietro questi ingressi un po’ dissestati c’è di tutto. Uno nasconde addirittura i resti di un edificio crollato, un luogo di culto forse. Un salmodiare arabo ci ricorda che Allah è grande e un bizzarro cowboy attraversa la salita lanciando il cavallo ad un trotto spedito.
Un gruppo di signore con il velo siede ad un lato della strada, chiacchierando. Ci sorridono, anche se non credo abbiano mai visto un dentista. Una di loro, una matrona notevole, si alza e camminando a fatica ci conduce a casa sua, per mostrarci (a pagamento) un tesoro nascosto sotto di essa: una chiesa, ampia e ben conservata. Quasi non crediamo ai nostri occhi, chi ha una chiesa al posto della cantina? Una piccola fortuna per chi non ha molto altro con cui mantenersi. L’antico qui si confonde con il povero: siamo lontani anni luce dalle volgarità turistiche di Goreme e ancor di più dalla vivace modernità di grandi città come Istanbul. Ma è qui forse che vale la pena di andare, per scoprire meraviglie e segreti di un luogo che sa di semi di girasole e the alla menta. Ripartire poi è difficile: le sensazione è quella di non aver mai visto abbastanza. Arrivederci Cappadocia, a presto…
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