Alla scoperta del batik: quando tingere i tessuti diventa patrimonio dell’umanità

Il 2 ottobre in Italia è trascorso come un giorno regolare, che magari verrà ricordato solo per lo sciopero nazionale indetto dagli impiegati legati al trasporto pubblico. Di sicuro pochissimi erano a conoscenza della Giornata mondiale del batik. Di Hari Patriadi 

Per chi ancora fosse all’oscuro, il batik è una tecnica di tintura a riserva dei tessuti, ossia mediante la copertura delle zone che non si vogliono tinte tramite la cera o altri materiali impermeabilizzanti: un metodo tipico di alcune popolazioni del Sudest asiatico e di alcune etnie del continente africano. In quest’ultimo caso uno dei più forti promotori è Nelson Mandela, il quale era solito apparire in pubblico con una grande varietà di camicie larghe, caratterizzate da colori sgargianti e disegni intricati. Indumento che, volendo rendere onore all’ex-presidente sudafricano, ha preso il nome di madiba (il nomignolo con cui veniva affettuosamente chiamato dai suoi compagni di lotta).

 Il profondo amore per questo tipo di colorazione particolare, va tuttavia ricercato nel vasto arcipelago indonesiano. Introdotto nel V secolo dai mercanti provenienti da Ceylon e dal Sud dell’India, ebbe un notevole sviluppo nell’isola di Giava. Qui in particolare furono sviluppate due tecniche: il tulis e il tjap. Il primo, tulis, vuol dire letteralmente ‘scrittura’ e consiste nel disegnare manualmente sul tessuto le forme e le fantasie volute mediante l’ausilio del tjanting, un piccolo serbatoio metallico dotato di manico e di un beccuccio per la fuoriuscita della cera. Va da sé che tale tecnica produce pezzi unici e di grandissimo valore. La tecnica del tjap (letteralmente stampo o timbro), invece, fa uso di stampi di metallici su cui viene applicata la cera (o materiali analoghi), consentendo una diffusione più economica di questa particolare arte.

 In Indonesia, infatti, il batik è parte integrante della vita quotidiana: inizialmente riservato alle donne nobili, da privilegio aristocratico (soprattutto giavanese) divenne costume nazionale indonesiano. Ovunque e in ogni momento della giornata ci si può facilmente imbattere in indumenti colorati col batik: all’alba lo si trova addosso alle tante signore che vendono frutta e verdura per strada; la mattina è l’ora migliore per vedere intere scolaresche che si recano alle proprie scuole con uniformi dalle mille fantasie; durante le importanti Scuola in cui viene festeggiata la giornata del batik.

Non bisogna poi dimenticare come tale tecnica sia fondamentale nei vestiti utilizzati nei momenti più sacri, come il matrimonio e la circoncisione. Analogamente tutte le maggiori espressioni artistiche indonesiane (dalla danza alle marionette di pelle – wayang kulit, dalle arti marziali del pencak silat alle inconfondibili orchestre del gamelan) richiedono indumenti tradizionali fortemente caratterizzati dalla presenza del batik.

 Una tecnica così viva in una popolazione di 250 milioni di persone e così unica e sublime che esattamente tre anni fa, il 2 ottobre 2009, fu nominata dall’UNESCO ‘capolavoro del patrimonio orale e culturale dell’umanità’. Data che da allora significò per tutto il grande arcipelago asiatico la ‘giornata del batik’, una festività ancora giovane ma che sicuramente avrà modo di radicarsi negli animi con il passare del tempo.


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