Si sono trasformati in una vasta retrospettiva, sei anni di ricerche sugli effetti del nazionalismo Afrikaner dal 1948 – quando l’apartheid venne introdotto ufficialmente – sino al 1993, anno della sua cessazione. Autori di questa coraggiosa ricerca visiva, sono i curatori Okwui Enzewor e Rory Bester. Il loro impegno si è tradotto infatti in una grande mostra, inaugurata la scorsa settimana all’International Center of Photography (Icp) di New York. Ascesa e caduta dell’apartheid: la fotografia e la burocrazia della vita quotidiana, questo il titolo della collettiva che rimarrà oltreoceano fino al prossimo 6 gennaio, per trasferirsi subito dopo in Germania al Haus der Kunst di Monaco e forse, prima dell’estate, in Italia.
Cinquecento fotografie, scattate quasi tutte da reporter sudafricani, e 28 video fanno da cornice a giornali, riviste, poster e centinaia di provini fotografici visibili su iPad.
Tra i tanti nomi, fa eco quello di Peter Mugabane, che insieme a Alf Khumalo, Noel Watson e Ernest Cole diede vita alla “struggle photography”, la fotografia della lotta. Sue le immagini di un cadavere coperto dalla pagina di un giornale sul quale appare l’ironico titolo “What would you die for?” e quella dei funerali del piccolo Hector Pieterson, ucciso a Soweto dalla polizia.
Ed è ancora Hector, protagonista di un’altra struggente immagine di Sam Nzima. Questa volta il piccolo, ridotto in fin di vita, è stretto tra le braccia di una coppia, sul cui volto traspare lo strazio per l’accaduto. Il racconto visivo si spinge fino all’avvento di Nelson Mandela, liberato dopo ventisette anni di detenzione a Robben Island.
Quindi nessuno scatto che immortali l’interminabile attesa per segnare il primo voto sulla scheda.
Teodora Malavenda
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