di Teodora Malavenda
Non è mai stato in Nord Africa. Eppure il progetto che lo ha visto vincitore del Premio Pesaresi 2012, assegnato nel 21 esimo Si Fest di Savignano sul Rubicone, racconta la primavera araba. Non è un fotoreporter e soprattutto non è attratto da quel filone fotografico che presuppone l’hic et nunc. Ventiduenne, studente di filosofia, Giorgio Di Noto è un fotografo proiettato alla sperimentazione e alla mescolanza di linguaggi differenti.
“Ho guardato e studiato su internet centinaia di video, selezionando singoli fotogrammi che ho poi reinquadrato e fotografato dal monitor del mio computer con una macchina Polaroid”. Una ricerca durata diversi mesi, alla fine della quale ha preso forma The Arab Revolt. Un lavoro composto da trenta istantanee, che pongono l’accento sul ruolo determinate che hanno svolto i social network durante una delle pagine più significative della storia contemporanea. Frammenti di fatti e persone che nel frastuono mediatico di quei momenti concitati, son divenuti fermo immagine utile per la continuità della memoria.
Nell’ambito di Fotoleggendo 2012, s.t. foto libreria galleria ospiterà la prima personale del giovane artista. La mostra, a cura di Fabio Severo, sarà inaugurata a Roma lunedì 22 ottobre.
Partiamo dagli inizi. Il tuo interesse per la fotografia quando nasce?
La passione per la fotografia nasce nei primi anni di liceo quando iniziai a scattare con una macchina fotografica a pellicola. Nei mesi successivi decisi di seguire una scuola di fotografia e i corsi di camera oscura che organizzavano nel mio liceo. Feci poi da assistente ad un bravissimo stampatore che mi insegnò moltissime cose e mi aiutò a capire quanto forte fosse il mio coinvolgimento per la fotografia.
Il tuo primo progetto?
Le prime fotografie che ho pensato e scattato con un atteggiamento più progettuale, sono una serie di paesaggi in bianco e nero, in cui gli elementi urbani e naturali si mischiano e si sovrappongono. Il titolo del lavoro è Through. Ma il primo vero e proprio progetto forse è Città n.0, un lavoro a colori sul rapporto tra uomo e architettura nei nuovi centri urbani.
Veniamo a The Arab Revolt. Raccontami il dietro le quinte…
Il progetto nasce alla fine del 2011. In quei mesi ero sempre più interessato ad indagare il rapporto tra linguaggio e contenuto delle immagini. Mi interessava in particolare sperimentare la matericità di alcune tecniche fotografiche con la virtualità delle immagini digitali. Dall’altra parte seguivo con attenzione la primavera araba ed ero molto colpito dal ruolo che i social media svolgevano nel conflitto. Vedevo quanto materiale veniva condiviso sul web e come questo influiva sulla realtà. Spesso era proprio la pubblicazione di un video o di una foto a scatenare le proteste. Decisi così di lavorare su questo livello così influente e spontaneo di rappresentazione per indagare quella sovrapposizione tra documentazione e testimonianza che ha caratterizzato la rivolta. Mi si presentava quindi la possibilità di riportare ad oggetto concreto un’immagine virtuale, che estrapolavo dal flusso di un video attraverso la pellicola istantanea: questo passaggio produceva proprio quel contrasto che cercavo e rappresentava per me quella stessa sovrapposizione.
Di quel filone fotografico-documentario che non presuppone la ricerca ma al contrario, l’urgenza di scattare foto fino ad ottenere quella più spettacolare, e che spesso mette a rischio la stessa incolumità del fotografo, cosa ne pensi?
Ho grande rispetto per la missione che molti fotografi hanno di documentare il mondo, recandosi anche sul campo di guerre e conflitti. Ma non sono la presenza o il rischio del fotografo la questione. Non è infatti lo scendere in campo e il rischiare la vita che determinano il senso ed il risultato del proprio lavoro. Quello che a me non piace di un certo fotogiornalismo sono il linguaggio e l’estetica. Ci vedo spesso poca attenzione sul mezzo fotografico e sulle sue caratteristiche, che per me invece sono le cose più importanti.
E sulle foto vincitrici del World Press Photo che mi dici?
Spesso rimango molto deluso dalle scelte che vengono fatte, proprio per quel problema di linguaggio che ho accennato prima. A questo proposito Joerg Colberg ha scritto un interessante articolo, “The problem with Western Press Photo”.
E quindi verso che tipo di fotografia sei orientato?
Verso la sperimentazione dei linguaggi, utilizzando e sfruttando diversi stili che diventano spesso l’oggetto stesso dei miei progetti.
Hai dei fotografi di riferimento?
Sugimoto per esempio è un autore che ha cambiato moltissimo il mio modo di vedere. Poi potrei citarti decine di autori, da H. Callahan a Sally Mann, da J. Sternfeld a S. Shore, poi J. Fontcuberta e Bloomberg and Chanarin, anche e soprattutto per i loro scritti. Gli autori di New Topographics e la scuola di Dusseldorf, Basilico in particolare tra gli italiani. Mi piacciono molto anche i lavori recenti di Nadav Kander, Richard Mosse, Simon Norfolk. Potrei andare avanti per molto. Guardare e studiare la fotografia mi ha insegnato più di qualsiasi altra cosa.
Progetti futuri?
Il web e la diffusione delle immagini sono ancora temi che mi stanno a cuore, soprattutto rispetto all’estetica che i nuovi mezzi di produzione e di diffusione stanno introducendo nella percezione delle immagini e della loro relazione con la realtà. Poi sto lavorando in Sicilia ad un progetto sul rapporto tra l’uomo e il paesaggio.
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