Celui qui n’a pas – Quello che non ho. Tre donne velate, un mucchio di sassi. Donne senza volti, veli neri, pietre simboleggianti la lapidazione. Minaccia che da sempre schiaccia le donne musulmane.
Una denuncia aperta e chiara quella dell’artista tunisina Nadia Jelassi, professoressa di Arte Moderna dell’Università di Tunisi denunciata e portata in tribunale per la sua opera. “È in corso una guerra culturale con gli estremisti islamici, stanno rubando la rivoluzione al popolo tunisino. I religiosi hanno sequestrato lo spirito originario della nostra rivoluzione, che era liberale, democratico, aperto al mondo e alla liberazione delle donne” denuncia Nadia dalla sua casa. Barricata. Non risponde al telefono. Quando alza la cornetta dall’altro lato sono solo insulti, provocazioni, urla. Intanto intorno a lei, nella sua città, alcune gallerie vengono bruciate, opere d’arte perdute per sempre, i galleristi picchiati.
Eppure Nadia, così come altri artisti tunisini, non rinuncia e non smette di denunciare quello che sta accadendo nel suo paese. Nemmeno durante il governo di Ben Ali era mai accaduto che un artista venisse incriminato per le sue opere e anche se il partito di Ennahdha alza le mani e dichiara “ci penseranno in tribunale. Non abbiamo il potere giudiziario. Nulla a che fare con il nostro partito”, è chiaro che i Salafiti stanno mirando a forgiare la cultura della Tunisia secondo i loro standard.
Dopo le accuse, l’artista e il suo collega Mohamed Ben Slama sono stati sottoposti ad un umiliante test antropometrico. La loro foto con un righello appoggiato alla faccia ha fatto il giro del web scatenando diversi dibattiti nel mondo occidentale. La repressione da parte del governo tunisino è stata criticata e accusata di dettare “nuove forme di terrorismo”, mentre Human Rights Watch ha chiesto che vengano ritirate le accuse contro l’artista.
La denuncia di Nadia Jelassi sulla situazione del suo Paese è forte, ma lascia un briciolo di speranza: “I Salafiti mirano alle scuole, ai media, ai cinema, a tutto ciò che può formare le nuove generazioni. Se dovessero vincere loro, tra meno di trent’anni le moschee avranno il sopravvento. La rivoluzione dell’anno scorso ha dimostrato che la nostra società civile ha forza per reagire. Quando i religiosi tireranno troppo la corda torneremo in piazza“.
Una promessa è una promessa.
Ilaria Bortot
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