Cina, il Congresso del Partito Comunista tra riforme promesse e disagio popolare

dalla nostra corrispondente da Pechino Natina Balzano

Sebbene in parte eclissato dalle quasi contemporanee elezioni statunitensi, il diciottesimo Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese è in questi giorni oggetto di attenzione, a livelli inimmaginabili fino a qualche anno fa, da parte dei media di tutto il mondo. Da mesi gli esperti internazionali ne discutono, tentano previsioni, analizzano eventualità; il Congresso viene considerato, a buon diritto, un evento fondamentale nell’attualità politica cinese, i cui riflessi, soprattutto (ma non solo) in termini economici, influenzano ormai notevolmente il contesto globale. Tutti con gli occhi puntati su Pechino, dunque, ma poche sorprese ci si aspetta da quello che da più parti viene definito il quinquennale “rito” del PCC.

Il Congresso è infatti un’occasione cruciale della vita del Partito, ma è più che altro un momento in cui fare il punto della situazione e formalizzare le tendenze prevalenti al suo interno. È il momento in cui il regime parla al “popolo”, ufficializzando il periodico passaggio di consegne e generazionale, rinnovando il suo potere attraverso la selezione dei successori dei leader più anziani. Con la cura riservata a un rito è stato così organizzato l’enorme spettacolo della successione che ha richiamato in una Pechino blindata 2270 delegati provenienti dalle sezioni del Partito Comunista Cinese di ogni angolo della Cina.

In rappresentanza di oltre 82 milioni di iscritti, sono qui per eleggere il 18° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, da cui verrà fuori una parte del suo Ufficio Politico (composto da circa 25 membri), che a sua volta deciderà la composizione del Comitato Permanente del Politburo. Tra questi uomini e donne (ora sono 9 ma il numero è variabile), che occupano le posizioni chiave del Partito e dello Stato, siedono anche il Presidente (nonché Segretario Generale del Partito Comunista) e il Primo Ministro della RPC. Questi ultimi due ruoli al vertice del sistema politico cinese attualmente sono ricoperti rispettivamente da Hu Jintao e Wen Jiabao dal 2003, ed essendo tali cariche esercitabili per al massimo due mandati quinquennali, ad uscire da questo congresso sarà un cambiamento decennale ai vertici delle istituzioni cinesi. Il 18° Congresso approverà inoltre un nuovo Statuto del Partito e un emendamento alla Costituzione.

Ma si tratta, appunto, di un rito che ha più forma che sostanza: le decisioni più importanti ratificate nel corso del Congresso, che durerà fino al 14 novembre, sono già state prese nei mesi scorsi e culminate nella settima sessione plenaria del 17° Comitato Centrale del PCC, chiusa il 4 novembre. Poca suspense sulla prossima composizione della massima dirigenza del Partito, che sembra certa ormai da tempo (fatti salvi colpi di scena). L’attuale vicepresidente Xi Jingpin e il vicepremier Li Keqiang prenderanno quasi sicuramente il posto di Hu e Wen, e certezza quasi totale c’è anche sui nomi degli altri 5 o 7 membri del Comitato Permanente del Politburo.

Rituale è stata la sfilata delle variegate delegazioni, in un tentativo di rappresentare più fedelmente possibile le differenti anime socio-culturali della Cina intera – operai, contadini, migranti, burocrati, imprenditori, sportivi, intellettuali, donne, minoranze etniche, guide religiose – radunati nell’altrettanto simbolica Grande Sala del Popolo a Piazza Tiananmen. Rituale e prevedibile la cerimonia d’apertura, con gli applausi preparati e le vecchie glorie del Partito, tra cui un ultraottantenne Jiang Zemin e l’ex premier Zhu Rongji (1998-2003), a benedire sorridenti dagli scranni d’onore.

Anche il discorso di Hu Jintao, durato quasi due ore, non ha fatto che riprendere mantra e considerazioni ricorrenti nell’ultimo anno, che lasciano prevedere anche quale indirizzo l’attuale e la futura dirigenza, strettamente intrecciate, hanno intenzione di dare alla politica cinese per il prossimi 5-10 anni. In campo economico, il Presidente ha riconosciuto il rallentamento della crescita e rilanciato la necessità di una riforma del sistema produttivo per puntare a un aumento della domanda interna, con l’obiettivo di raddoppiare entro il 2020 il PIL del 2010.

Il Paese deve “proseguire fermamente sulla strada del socialismo con caratteristiche cinesi”, migliorando la distribuzione della ricchezza per raggiungere in tempi brevi la “moderata prosperità”, il benessere diffuso che è al centro della teoria politica elaborata ed espressa (quantomeno nelle parole) nel corso del decennio di governo Hu-Wen. Si tratta del cosiddetto “concetto scientifico di sviluppo”, esplicitamente menzionato nel discorso di oggi, che pone una specifica attenzione sociale al fulcro della prassi politica, con il perseguimento di uno sviluppo sostenibile, con l’importanza data al welfare, alla distribuzione della ricchezza, alla democrazia popolare: l’intento finale è la creazione di una “società armoniosa” da raggiungersi con metodi “scientifici” di governance. È evidente l’ispirazione populista di questa formulazione, nell’impegno formale a favore degli sconfitti dello sviluppo economico, in contrasto con il freddo tecnicismo dell’era Deng prima e Jiang poi, dell’ “è necessario che alcuni si arricchiscano prima degli altri”. Nella pratica, è plausibile che il 18° Politburo continuerà, come il precedente, a spingere l’acceleratore sulla crescita, favorendo l’imprenditoria privata e transnazionale, puntando sulla crescente classe media e aumentando i consumi.

Più interessante, e relativamente nuova, la parte del discorso riservata alle riforme politiche. Pur ribadendo l’indiscutibilità della leadership del Partito e l’intenzione di non seguire i modelli occidentali, Hu Jintao ha fatto riferimento all’urgenza di maggiori trasparenza e democrazia, di un ampliamento della rappresentatività di base, della garanzia di un sistema esecutivo basato sulla legge e la Costituzione. La spirale di autoreferenzialità in cui il Partito Comunista sta scivolando negli ultimi anni rischia infatti di alienargli il consenso di strati sempre più larghi della popolazione.

La “sedia vuota” a cui si rivolgono queste parole è quella di Bo Xilai, il grande assente, dato fino a poco tempo fa come papabile erede ai vertici del Comitato Permanente e silurato invece a fine settembre, lasciato al giudizio della magistratura cinese con l’accusa di corruzione, abuso di potere, reati sessuali e favoreggiamento. Questo controverso caso legale e politico è espressione di due fenomeni diffusi nella politica cinese: da un lato, la relativa impunità delle autorità, la corruzione dilagante in tutti i ranghi del PCC; dall’altro, il mistero che avvolge le scelte politiche dei vertici, l’apparente assoluta arbitrarietà di esse, la mancanza di trasparenza e comunicazione con i cittadini.

Hu Jintao si rende conto, e l’ha dimostrato oggi, che il Partito Comunista è sempre più scollato dalla società, che l’insoddisfazione aumenta tra i cinesi, che subiscono gli effetti di uno sviluppo economico selvaggio e disomogeneo e sono sempre più insofferenti all’autoritarismo del regime. I vertici del Partito sono consapevoli del fatto che il cambiamento non è rinviabile, e che un ritardo eccessivo potrebbe essere fatale alla sua stessa sopravvivenza. Vedremo come agirà il 18° Congresso in questo senso, e quali effetti avrà sulla vita dei cinesi.

I cinesi, già. Tutti con gli occhi puntati su Pechino, ma i pechinesi cosa dicono? La maggior parte delle persone osservano con freddezza quello che succede nel Partito Comunista e spesso, fatta eccezione per i pochi più noti, ignorano i nomi stessi dei leader politici che li governano. Un conoscente sere fa mi diceva che a volte li chiamano “gli uomini neri”: per le facce e nere, cioè serie e impassibili; per le mani nere, riferendosi al nome cinese della malavita organizzata: il “partito delle mani nere”; con i capelli neri, nerissimi per tinture corvine di uomini non più giovani saldamente al potere da anni.

Qualcuno segue con una certa sfiducia il “rito”; i più se ne disinteressano, come di cosa che non li riguardi. In effetti stavolta nessuno chiederà il loro parere, ma è pur vero che le spinte della società civile cinese sono in molti modi sempre più intense: starà alla nuova leadership il compito di recepirle e reagire ad esse.

 


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