Mentre la stampa internazionale si appassionava ai giochi (dagli esiti abbastanza scontati) della politica cinese, in quello che potrebbe essere considerato a buon diritto il congresso di partito più seguito della storia, altri, in Cina, cercavano senza successo di conquistarsi l’attenzione pubblica.
dalla nostra corrispondente da Pechino Natina Balzano
Sebbene sempre meno se ne senta parlare, infatti, il Tibet continua a bruciare. In senso letterale. In concomitanza con lo Shibada (abbreviazione cinese del 18° congresso del PCC), sono aumentati gli episodi di auto-immolazioni nelle regioni cinesi a maggioranza etnica tibetana. L’ultima in ordine di tempo, stando all’agenzia di stampa nazionale Xinhua, è stata quella di un 14enne datosi fuoco il 15 novembre nella contea di Rebkong (Tongren, in cinese), nella provincia del Qinghai.
Dato lo stretto controllo statale sull’informazione, i numeri sono sempre incerti, e spesso le notizie ufficiali sono integrate da quelle diffuse dalle organizzazioni pro-Tibet con sede all’estero: stando a diverse fonti, almeno altre cinque persone, tutte giovanissime, hanno scelto lo stesso destino nella stessa prefettura autonoma tibetana, sede di numerosi monasteri buddhisti. Proprio qui il 9 novembre si è tenuta una manifestazione di centinaia di studenti radunatisi per commemorare i suicidi, seguita da una fiaccolata, la sera stessa, nel capoluogo della provincia, Xining.
Il tentativo di rubare la scena al congresso non è riuscito: i media nazionali hanno come al solito taciuto sulle auto-immolazioni e le proteste. Soltanto le domande dei giornalisti stranieri nel corso di un incontro con la stampa a margine del congresso hanno costretto i leader della provincia a intervenire sulla questione. Losang Gyaltsen, vice-presidente della Regione autonoma del Tibet (Tibet Autonomous Region, TAR), ha ripetuto un vecchio slogan abusato in simili occasioni, accusando le “forze separatiste tibetane all’estero e la cricca del Dalai Lama” di istigare le auto-immolazioni e spingere le persone a uccidersi pur di raggiungere i propri scopi politici: “l’induzione al suicidio è essa stessa un crimine”.
Il Dalai Lama (che manca dalla Cina dal 1959 e ha nel frattempo rinunciato alla guida del governo tibetano in esilio), aveva dal canto suo cercato, nei giorni precedenti, di riportare l’attenzione su quello che ormai è diventato un fenomeno dalle proporzioni preoccupanti: le auto-immolazioni di tibetani sono state finora 73 dal 2009, 59 nel solo 2012. Nel corso di una visita in Giappone, il 5 novembre la massima autorità del buddhismo tibetano ha denunciato il mancato impegno di Pechino in una seria indagine (e risoluzione) delle cause dei sucidi, e ha detto che “i giornalisti stranieri e le autorità internazionali dovrebbero recarsi personalmente in Tibet per constatare i fatti”.
Negli ultimi tre anni, da quando cioè le violente sommosse del 2008 hanno decretato la militarizzazione del territorio della Regione Autonoma del Tibet e la chiusura pressoché totale della provincia al mondo esterno, le auto-immolazioni hanno segnato una svolta nella natura e nella modalità delle proteste contro il regime del PCC. Intanto, geograficamente: esse si sono infatti spostate dal cosiddetto Tibet interno, ovvero la TAR, alle prefetture che fanno parte del Tibet storico, che include l’Amdo (il territorio che attraversa il Qinghai e comprende parti del Gansu e del Sichuan) e il Kham (parte della TAR orientale e alcune prefetture del Sichuan e dello Yunnan).
Questo spostamento, conseguenza innanzitutto delle difficoltà di comunicazione e dello stretto controllo esercitato sul territorio della TAR, è indice anche di un graduale cambiamento delle istanze del movimento tibetano. Negli ultimi anni, si è passati infatti dalla richiesta di maggiore autonomia (o addirittura di indipendenza) per il Tibet, alla rivendicazione, per tutte le popolazioni di etnia tibetana della Cina, del diritto alla libertà politica e religiosa e all’inclusione sociale.
Una forma di protesta agghiacciante, quella del suicidio, che testimonia l’esasperazione del popolo tibetano di fronte alle discriminazioni economiche e alla devastazione culturale di cui è vittima. Dal 2008, dopo gli scontri che avevano messo a ferro e fuoco Lhasa, una dura repressione e l’ondata di arresti tra religiosi e laici, Pechino sorveglia costantemente i monasteri con una guardia di sicurezza installata presso ognuno di essi. Scoraggia inoltre i tradizionali viaggi per motivi di studio e cerca di limitare al minimo gli scambi e le comunicazioni tra i monaci. In queste condizioni diventa impossibile incontrarsi, discutere e organizzare una resistenza militante. L’alternativa al silenzio rimane, per molti, il suicidio.
Gli appelli della comunità internazionale vengono sistematicamente liquidati come ingerenze indebite dalla leadership cinese, che, se da un lato ha mostrato negli ultimi anni una certa flessibilità nel reagire alle migliaia di “incidenti di massa” (questa la denominazione ufficiale delle proteste popolari) in giro per il paese, continua invece a rispondere a muso duro alle richieste avanzate dalle comunità tibetane.
Le speranze riposte nel neoletto politburo sono, nel breve periodo, destinate a rimanere frustrate. Sebbene lo stesso Dalai Lama, in una recente intervista alla Reuters, abbia ricordato con affetto il padre del futuro presidente della RPC, Xi Jinping (Xi Zhongxun, veterano della rivoluzione e “colomba” in seno al Partito sulle questioni riguardanti le minoranze etniche), è improbabile un cambio di rotta del governo centrale, preoccupato di affermare la sua legittimità e mantenere saldo il controllo su tutto il Paese. E in Tibet, intanto, si continua a bruciare.
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