Marocco, l’infelice destino delle domestiche bambine tra violenze e schiavitù

Meno di dieci anni, marocchine, provenienti dalle zone rurali del Paese: è l’identikit delle nuove domestiche, piccole lavoratrici che, dalle campagne, ogni anno, vengono mandate dai genitori in città, trovando lavoro nei quartieri borghesi. Costano poco, una media di 30 dollari, versati alla loro famiglia, e lavorano tanto, sostenendo dei turni massacranti.

La loro giornata comincia alle sei del mattino e termina non prima di mezzanotte. L’unica mansione delle piccole marocchine è “la casa” del datore di lavoro. Nell’arco della giornata, all’interno delle mura domestiche, si consumano violenze e molestie, le piccole sono in balìa dei datori di lavoro stessi, ma anche dei loro figli. Diventano prigioniere della famiglia che le ospita.

Non possono uscire dalle abitazioni, se non per le faccende o le mansioni afferenti al loro lavoro. E anche ribellarsi è impossibile. Per paura o per inesperienza: naturalmente, questo nuova forma di sfruttamento selvaggio dei minori è collegata a un’altra piaga: l’analfabetismo, in Marocco sempre più dilagante. Le piccole domestiche non hanno istruzione, non frequentano la scuola, non possono studiare. Sono sole e non possono contare sull’appoggio di nessuno.

Nelle ultime settimane la società civile marocchina è scesa in piazza, protestando duramente e chiedendo interventi rapidi ed efficaci per arginare il fenomeno. La riflessione sulla opportunità di varare una legge che regoli il lavoro domestico è cominciata da tempo, ma il governo, formato da uomini che, a loro volta, si avvalgono del lavoro delle minori, ha garantito di “discuterla” entro il 2013.

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Una posizione comunque troppo lieve, che non offre alcuna garanzia alla popolazione, stando alle posizioni di Human Rights Watch (HRW). L’osservatorio internazionale sui diritti umani, il 15 novembre scorso, ha pubblicato un rapporto dal titolo “La servitù solitaria”.  Quelle che dovrebbero essere le reali intenzioni del governo sono state spiegate da Jo Becker, membro di HRW.

“Il governo dice che il lavoro minorile è diminuito e la scolarizzazione aumentata. E’ vero ma c’è la necessità di proteggere queste lavoratrici con azioni mirate. Il lavoro al di sotto dei 15 anni dovrebbe essere proibito. Queste ragazzine vengono sfruttare, abusate e costrette a lavorare per moltissime ore per un salario bassissimo. Nessuno sa quante siano veramente”.

L’ultimo censimento delle piccole schiave marocchine, risalente al 2001, offriva una stima inquietante, numeri terribili: tra 66mila e 86mila le domestiche bambine impegnate su tutto il territorio, e di queste circa 13,500 solo a Casablanca. Numeri che oggi, ha assicurato Becker, sono diminuiti, nonostante il fenomeno sia ancora largamente diffuso.

Servono, ad ogni modo, nuove indagini, occorre verificare l’effettivo numero delle bambine impiegate nelle famiglie borghesi marocchine, e il governo ha promesso di fornire presto nuovi dati. La stima presunta, attualmente, parla di poco meno di 130mila domestiche minori “assunte” nel 2011.

Grande, comunque, resta la preoccupazione di Becker e dell’osservatorio di Human Right Watch: “il lavoro domestico è un problema serio perché queste ragazzine sono invisibili, lavorano all’interno delle abitazioni e quindi sono più vulnerabili all’abuso fisico e per loro è ancora più difficile cercare aiuto”.

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Mentre il governo promette rapidi interventi, e l’ente mondiale redige rapporti, solleva le questioni e denuncia il fenomeno, in questi giorni ritorna alla memoria la storia di Khadija, piccola domestica marocchina di 11 anni: rovinò una camicetta della figlia della padrona di casa, lavandola male. Un errore che le costò la vita. La proprietaria dell’indumento, una donna di 31 anni, la punì, ammazzandola di botte. La morte di Khadija colpì l’opinione pubblica ma fu presto dimenticata da una nuova ondata di “assunzioni” di domestiche bambine.

Emilio Garofalo

 


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