Il lato oscuro del “capitalismo socialista”: in Cina i sindacati difendono i padroni

Con un incremento del Pil del 7,6% nel secondo trimestre del 2012 (la cifra più bassa degli ultimi tre anni, comunque notevole in tempi di recessione globale), la Cina continua inarrestabile la sua crescita economica. L’obiettivo del raddoppio del Pil entro il 2020 fissato da Hu Jintao sembra perfettamente a portata di mano, e c’è da scommettere che il governo centrale investirà tutte le sue energie (all’interno e, sempre più, all’estero) per raggiungerlo, in funzione di un costante miglioramento del tenore di vita della popolazione e del mantenimento della stabilità sociale.

dalla nostra corrispondente da Pechino Natina Balzano

UN’INEGUALE DISTRIBUZIONE DEL REDDITO – Alcuni dati mettono però a rischio il progetto di “società armoniosa” perseguito dal PCC, a cominciare da quelli diffusi di recente sulla distribuzione della ricchezza. Secondo un rapporto pubblicato il 9 dicembre dal China Household Finance Survey, centro di ricerca e statistica con base a Chengdu, l’indice di Gini per la Cina ha infatti raggiunto quota 0,61 nel 2010, l’ultimo anno per il quale è stato calcolato finora.

L’indice di Gini è un coefficiente utilizzato per misurare la distribuzione del reddito, e può essere dunque considerato un indicatore delle diseguaglianze economiche in un Paese. Viene espresso in una scala che va da 0, corrispondente ad una situazione in cui virtualmente tutti i cittadini hanno le stesse entrate, a 1, con le ricchezze concentrate in una sola persona. Per intenderci, nel rapporto sullo sviluppo umano dell’ONU del 2005, l’indice di Gini si aggirava intorno a 0,25 per paesi come la Danimarca, la Svezia e il Giappone, e piazzava agli ultimi posti della “classifica” alcune nazioni del centro e sud Africa, con coefficienti superiori a 0,6. Secondo lo stesso studio, quello della Cina era 0,44.

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Tralasciando l’affidabilità di un simile strumento statistico (che, ad esempio, diminuisce all’aumentare delle dimensioni del campione in esame), nonché l’annosa questione del rapporto tra reddito e benessere (e felicità), l’indice di Gini in una certa misura può essere, almeno se letto in maniera comparativa, rappresentativo della concentrazione della ricchezza, e riporta l’attenzione sul problema delle ineguaglianze economiche in Cina.

A fronte di una fetta di popolazione che diventa sempre più ricca, con buona pace delle fame di mercati delle economie occidentali, la maggioranza dei cinesi vede negli ultimi anni stazionare, quando non diminuire, il proprio reddito. Di più: nel 2011, il 13,4% della popolazione (quasi 130 milioni di persone) viveva al di sotto della soglia di povertà fissata a 2300 renminbi all’anno, circa 280 euro. I contrasti sono particolarmente stridenti tra città e campagne, queste ultime rimaste ai margini di una crescita economica basata sull’industria e le infrastrutture, e tra le zone costiere e quelle dell’interno, nonostante gli sforzi del governo racchiusi nello slogan “go west”.

MOLTEPLICI E COMPLESSE LE RAGIONI – Secondo Zheng Xinye, docente di economia dell’Università del Popolo di Pechino interpellato dal quotidiano People’s Daily, una delle cause è la difficoltà per le piccole e medie imprese di entrare in settori strategici come l’energia e le comunicazioni, ancora fortemente controllati dallo Stato: favorendo la concentrazione oligopolistica nelle mani di grandi tycoon, costituisce un ostacolo alla circolazione sociale e geografica delle risorse. La corruzione della politica, soprattutto a livello locale, contribuisce notevolmente a peggiorare la situazione in tal senso.

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La scarsità di vincoli che proteggano il lavoro dipendente è un altro elemento che limita la distribuzione della ricchezza, producendo fenomeni di sfruttamento e stagnazione dei salari. Le principali associazioni di lavoratori, radunate sotto l’egida della Federazione dei Sindacati Cinesi, nell’ottica dell’interesse della Nazione si occupano più spesso di tutelare le imprese (a loro volta una delle fonti di sostentamento della FSC), che i diritti dei lavoratori. La FSC è l’unica organizzazione sindacale a livello nazionale e il Partito Comunista ne condiziona fortemente le dinamiche interne.

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Inoltre, un sistema di istruzione particolarmente selettivo permette solo ai migliori (e/o più ricchi) di avere accesso all’educazione superiore, riducendo quindi la possibilità di un miglioramento delle condizioni di partenza e la mobilità sociale. Mandare un figlio all’università è oggi un lusso che solo una minoranza di cinesi può permettersi, spesso a costo di grandi sacrifici.

Infine, essendo la maggior parte delle entrate fiscali centrali basata sulla tassazione dei consumi, queste gravano maggiormente su coloro che dispongono di un reddito basso e lo spendono principalmente in beni di necessità. L’inflazione, che ha toccato punte del 6% nel 2011, e l’aumento dei prezzi delle case e degli affitti nelle città sono altre concause della riduzione del potere d’acquisto delle fasce più deboli.

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Moltissimi cinesi, specialmente tra i giovani, fanno ormai fatica a sbarcare il lunario. Il tasso di disoccupazione nazionale è dell’8%, e tra i neolaureati la percentuale sale al 16,4%. Povertà, emarginazione, insoddisfazione sono gli spettri che si aggirano sempre più frequenti nelle campagne come nelle grandi città, a minare tre decenni di entusiasmo generale per gli straordinari successi dell’economia cinese.

Il rallentamento della crescita rispetto al passato, dovuto a ragioni congiunturali (il contesto internazionale) e strutturali (il graduale passaggio da un sistema produttivo basato sull’export a uno che spinga i consumi interni), pone una grande sfida alla pianificazione economica del PCC. Ma la nuova leadership dovrà preoccuparsi anche di una più equa redistribuzione delle risorse per dimostrare ai cinesi di lavorare per “servire il popolo” ed evitare un’esasperazione del malcontento collettivo, con conseguenze imprevedibili.


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