Il Natale dei cristiani palestinesi. Quattro storie di sofferenza e speranza

Vi invitiamo a passare un Natale insolito. Vi invitiamo  a “casa” di quattro palestinesi cristiani. Vivono in Cisgiordania, Gaza, Stati Uniti e un campo profughi libanese. Sono costretti a lottare contro l’assedio, contro la discriminazione religiosa o semplicemente hanno vissuto un difficile percorso di ricerca della propria identità. Il nostro Natale lo dedichiamo a loro, che ci ricordano che il messaggio di Cristo è prima di tutto un messaggio di redenzione e umanità. ENGLISH  / العربية/עברית

Nicola Huja – Betlemme

I cristiani palestinesi sono la comunità nativa e originaria della Terra Santa. Da questa terra, che la si chiami Israele o Palestina occupata, è iniziata la storia del cristianesimo. A causa di estreme sofferenze subite, oggi i cristiani sono una piccola minoranza in Palestina. Molti di noi sono stati uccisi e molti altri hanno scelto di emigrare. Di tutta la popolazione palestinese oggi siamo meno del 2% (questo nonostante i cristiani nel mondo considerino “santa” la nostra terra). Israele ci ha privati della libertà, del diritto di vivere nella sicurezza e del diritto di circolare liberamente; soffriamo a causa del muro che ci circonda e dei check point che non ci permettono di essere liberi di entrare nella nostra Gerusalemme così come in altre città occupate. Ma, nonostante non sia per niente sicuro vivere sotto un continuo stato di guerra, mi considero onorato di essere nato nella stessa città dove anche Gesù è nato. Per poter costruire la pace bisogna guardare il prossimo in quanto umano, e non in quanto cristiano, ebreo o musulmano. Ho molti amici musulmani – anche il mio migliore amico lo è – ma ci sono brave persone, di fede islamica, così come ci sono appartenenti alla stessa religione che non si comportano bene. Succede in tutte le comunità. Quando ci rapportiamo con un’altra persona non dobbiamo giudicarla in base alle sue convinzioni religiose. Siamo tutti palestinesi e non abbiamo bisogno di ulteriori divisioni e discriminazioni interne.

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Elias Khoury – `Alma Ash Sha`B, Libano

La vita dei palestinesi cristiani in Libano è estremamente complicata. La nostra situazione è diversa da quella degli altri rifugiati. Sentiamo di non appartenere a nessun altro gruppo. I rifugiati sono per la maggioranza musulmani e non ci sentiamo al 100% parte della loro comunità. D’altro canto ci sentiamo esclusi dalla società tradizionale cristiana libanese, nonostante condividiamo la stessa fede, a causa delle tensioni che ci trasciniamo dalla guerra civile del 1975. Alcuni in Libano neanche sanno che noi, cristiani palestinesi, esistiamo! Una volta ero su un taxi e l’autista rimase molto sorpreso quando scoprì la mia identità. Cristiano e palestinese nello stesso momento! Gesù stesso è nato in Palestina, quindi perché non dovrebbero esserci cristiani palestinesi? Il governo libanese ci tratta proprio come il resto dei palestinesi rifugiati: non abbiamo diritti, non possiamo possedere una casa, alcune professioni ci sono vietate (come quella di banchiere o di avvocato) e dobbiamo affrontare continui casi di razzismo. Molti di noi non vedono un futuro limpido e per questo spesso si sceglie di emigrare verso l’Occidente. Anche se mia madre è libanese e io sono nato e cresciuto qui, sogno di tornare – lo stesso vale  per quasi ogni altro palestinese – nella mia terra d’origine e rimanerci per sempre. Il villaggio palestinese di cui sono originario – ora occupato – è proprio dall’altra parte del confine, a sette minuti di distanza da dove vivo ora. E non posso neanche andare a vederlo! Ma, nonostante tutto, coltivo e coltiviamo la fede e crediamo che in un modo o nell’altro riusciremo a ottenere la vita dignitosa che, come tutti gli altri popoli, meritiamo anche noi.

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Rami Sh. – Gaza

Nella Striscia di Gaza non ci sono più di 1500 cristiani – principalmente cattolici e greco-ortodossi – anche se alcune stime parlano di 3mila persone. Il periodo natalizio a Gaza non è come nel resto del mondo; l’assedio imposto dall’occupazione israeliana rende impossibile percepirne l’atmosfera di festa. Nella mattina di Natale però, oltre alla consueta messa e alla tradizionale visita ai parenti, possiamo assistere a gruppi di scout ortodossi (arabi, ovviamente) che distribuiscono doni vari ai bambini, portando una piacevole aria di gioia e serenità. La circolazione delle persone è limitata dall’assedio, anche in questo periodo: dal 2008 non si può lasciare la Striscia (controllata da Hamas) per andare in Cisgiordania; nella città di Betlemme, invece, possono andare solo over 35. Chi non ha quell’età è destinato a rimanere, c’è un’intera generazione chiusa come in una scatola di sardine nella Striscia. E qui, ovviamente, non riusciamo a celebrare la festa come gli altri, perché siamo netta minoranza. Nella Striscia musulmani e cristiani convivono come in una grande famiglia e, fatte le dovute eccezioni (le sofferenze e i problemi sono in qualsiasi posto), c’è una grande tolleranza religiosa tra la popolazione. La più grande dimostrazione di questo è l’esistenza della chiesa ortodossa di San Porfirio proprio accanto a una moschea e il fatto che i due edifici religiosi condividono la stessa torre che ha funzione sia di minareto che di campana. A parte alcuni piccoli incidenti, si respira amore, amicizia e tolleranza religiosa.

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Hazem Farraj – Usa

Ero un ragazzino arabo insicuro e appesantito da una profonda sensazione di rifiuto. Volevo cambiare nome per nascondere la mia identità! Sembra assurdo, ma è vero. Il trauma delle difficoltà della vita e la confusione scatenata dopo la mia conversione al cristianesimo avevano fatto crescere in me un forte desiderio di fuggire tutto ciò che era palestinese. Arrivato a 17 anni iniziai a contare i mesi nell’attesa di avere l’età legale per cambiare il mio nome in Adam. Evidentemente i nomi sono importanti per Dio. Un giorno ascoltai un predicatore di nome Pat Schatzline. Non ricordo il tema del messaggio che stava comunicando, ma solo alcune parole – dirette proprio a me – che cambiarono per sempre la mia vita. Pat, che io non conoscevo né avevo mai incontrato prima, lasciò il pulpito, pose le sue mani sulla mia spalla e chinò la sua testa. Poi pronunciò queste esatte parole: “Figliuolo, il Signore ti dice: ‘Smetti di correre via dalla tua cultura‘ “. Fu come se fossi stato colpito da una tonnellata di mattoni. In qualche inspiegabile modo tutti gli anni di vergogna e imbarazzo scomparirono istantaneamente! Non riesco ancora a descrivere quanto avvenuto, ma ci fu una connessione tra la mente e il cuore che rese possibile a “quel giovane” di abbracciare la propria identità. Mi piace descrivere così quella notte: Adam incontrò Hazem.

Da quel momento il mio amore per il popolo arabo e per quello palestinese è cresciuto senza tregue. Il conflitto tra Israele e i palestinesi è stato uno dei temi più ricorrenti nella mia vita. Inspiegabilmente la gente pensa che poiché sono fiero della mia identità palestinese devo essere automaticamente anti-israeliani. Questo non è vero. Ora parlo a nome della maggior parte dei palestinesi. Non siamo tutti terroristi. Non tutti odiamo la democrazia. Non siamo tutti anti-americani. Non siamo tutti anti-cristiani. Noi siamo, comunque, vostri fratelli e sorelle. Noi, i cristiani palestinesi, esistiamo. Ogni essere umano ha una dignità innata e quando questa viene portata via – in nome dell’escatologia religiosa, a causa della politica o per qualsiasi altro motivo – la sua statura morale inizia a essere distorta. Questa è la ragione principale per cui molte persone pensano a noi in ottica negativa. Non voglio giustificare il circolo vizioso che si è creato, ma questa è la realtà. Che si tratti di un missile artigianale lanciato su Israele o di un razzo ad altissima tecnologia lanciato su Gaza o sulla Cisgiordania, l’assassinio e la guerra sono comunque sbagliati. E proprio nel mezzo, esattamente al centro di tutto questo, si trova la mia famiglia di credenti, la famiglia dei cristiani palestinesi.

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Se mai dovessi sentirmi fiero di appartenere a un gruppo di persone, direi di essere orgoglioso di far parte del corpo della Chiesa palestinese. Una comunità che è sopravvissuta a tantissimi ostacoli mantenendo – nel territorio – la propria fede. Chiunque sia interessato può sperimentare la vita della Chiesa nella comunità palestinese a Gerusalemme, nonostante i credenti autoctoni siano sparpagliati. Oltre i pregiudizi di una Gerusalemme dai quartieri divisi si può ancora trovare Dio, perché anche le pietre raccontano la grande storia della città. I suoi palazzi narrano la sua storia, le sue torri proclamano la sua verità. Oggi voglio dichiarare che questo popolo eroico merita di essere riconosciuto. È un popolo eroico per via del suo onore. È il mio popolo e io rivendico l’appartenenza alla Chiesa palestinese, che è rimasta fedele pur attraversando tempi durissimi. Sono loro che danno valore a queste parole di Gesù e che rendono la nostra fede più profonda: “Su questa rivelazione io costruirò la mia Chiesa”.

A cura di Valerio Evangelista e Joshua Evangelista


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