di Serena Rossi
Me lo sono chiesta spesso il motivo per il quale, il giorno in cui ho rifiutato una seconda borsa di studio per l’Inghilterra, ho prenotato un volo per il Sud dell’India. E l’ho fatto, come fosse la cosa più naturale del mondo, sotto lo sguardo di disapprovazione di tutte le persone che avevo accanto e che non capivano. Fondamentalmente, puoi prendere in giro te stessa milioni di volte e continuare ad ingannarti convincendoti che tra i tuoi sogni, come in quelli di molti amici, c’è: frequentare università prestigiose in Uk, vincere dottorati, costruirti una carriera professionale da urlo. Non c’è nulla di disprezzabile in chi aspira a questo, anzi, ma gli ambienti competitivi non mi sono mai appartenuti.
La mia partenza nel novembre del 2012, insieme ad un gruppo di persone, capitanate da Don Rino Ramaccioni (parroco della Parrocchia di Cristo Redentore di Recanati o definizione che gli calza meglio addosso – amico, missionario e viaggiatore), è qualcosa che ha avuto a che fare non con la religione (almeno per me, che nutro idee diverse e lontane da quelle del mondo ecclesiastico), ma con quattro parole a me care: solitudine, curiosità, umanità, amore. Ognuna di queste parole, rappresenta uno spicchio della mia intimità più vera e le custodisco con grande gelosia.
È accaduto che dopo essere tornata dall’Inghilterra con il Progetto Leonardo (esperienza che mi ha insegnato tantissimo), ho cominciato a patire sempre di più l’indifferenza e la sterilità della realtà attorno a me. O forse, è solo che le esigenze mutano, che ad ogni ritorno in terra, ci si scopre un po’ più diversi. È accaduto che avevo bisogno di calore umano, di un posto in cui le persone si donassero senza riserve, senza pregiudizi, con semplicità. Un posto in cui non si ha paura dell’altro, in cui le mani si stringono, s’intrecciano, narrano storie. In cui c’è condivisione.
È con questo stato d’animo che sono partita. Sapevo che si trattava di un viaggio umanitario di sole due settimane, ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che stavo facendo la cosa giusta. E non perché fossi animata da chissà quali grandi ideali d’altruismo o peggio ancora, di eroismo, ma perché egoisticamente ne sentivo l’esigenza. Di ritrovarmi, perdendomi in mezzo a un’umanità diversa, che in seguito ho scoperto essere povera di ogni bene di prima necessità, ma ricca d’animo e amore.
Molte persone mi avevano descritto la loro esperienza in India come una delle più dure da digerire. Eppure, le emozioni che io conservo dentro di me circa questo viaggio, sono di gioia, non di sofferenza. Questo non significa che non abbia incontrato realtà difficili o che io sia rimasta indifferente ad un certo tipo di dolore. L’India è un continente che soffre, la povertà è un dato di fatto, un segno tangibile e innegabile, che non risparmia nessuno. Ma per poter aiutare un popolo a crescere e non a sopravvivere negli stessi deleteri meccanismi, bisogna renderlo dapprima consapevole delle ingiustizie che è costretto a subire e poi autonomo, libero nelle scelte.
Roma-Dubai, Dubai-Chennai, Chennai-Madurai. Un viaggio estenuante, che ci ha accolto con un caldo irrespirabile all’aeroporto, fiumi di persone riverse in strada, il rumore assordante dei milioni di apetti che fungono da taxi, odori speziati e sari dai colori vivacissimi. Un viaggio che dopo i primi cinque giorni, ci ha condotto ancora più a Sud, a Palayamkottai e a Kanyakumari, a visitare scuole, istituti, appuntare progetti nuovi e portare aiuti, per accertarsi che i soldi non passino tramite associazioni, ma arrivino direttamente ai poveri. Un viaggio umano che mi ha permesso anche di scoprire cibi diversi, templi e divinità induiste. Abbiamo visitato villaggi poveri, giocato con i bambini, scambiato parole di solidarietà con chiunque. Ci siamo tuffati nelle foreste di cocco e banane, osservato lo scorrere lento della vita di questo popolo, accarezzato l’Oceano Indiano.
Don Rino, durante il tragitto in pulmino, parlando con noi, si è soffermato su un aspetto che mi ha fatto riflettere molto: “Non possiamo portare aiuti ovunque, è necessario portarli là dove, alla radice, ci siano dei progetti concreti, delle proposte culturali serie. Altrimenti, il rischio è quello di incrementare la povertà e il degrado, non di combatterli”. Riassumendo, è importante conoscere un popolo, le sue usanze e tradizioni (comprese quelle che per noi occidentali sono da ritenersi “incivili”), e rispettarlo. E poi, in un secondo momento, cercare il modo migliore per aiutare, costruire, proporre, soprattutto dove le istituzioni politiche e non, scelgono volontariamente, per arricchirsi, di tapparsi gli occhi.
L’India mi ha aiutata ad assumere una maggiore consapevolezza di quello che concretamente si può fare, senza essere eroi o altro, semplicemente dando voce al senso di umanità che ci appartiene. Gli indiani possiedono un’innata dolcezza, miti e gioiosi di carattere, fieri e orgogliosi anche nelle condizioni più disperate. Sono aperti agli altri. Mi ha sorpreso la loro totale curiosità nei nostri confronti e l’assenza di qualunque forma di razzismo verso noi bianchi, che troppo spesso alimentiamo il cancro del consumismo.
Non ho mai pensato, neanche quando ero al lebbrosario, che sarebbe stato meglio non vedere. Non mi sono mai sentita fuori luogo, non ho mai provato fastidio davanti a quelle piaghe e non per una mancanza di compassione o sensibilità, ma al contrario, perché quando sei lì, comprendi più in profondità il valore che può avere la tua vita se solo si avesse il coraggio di investirla in termini di solidarietà. Quando sei lì, non hai tempo di pensare, devi fare. Dare quello che, nel tuo piccolo, queste persone si aspettano da te.
Spesso si aspettano amore. L’amore non riempie gli stomaci, ma riempie l’anima. Aiuta a trovare la forza di andare avanti, d’impegnarsi, di sentirsi meno soli. L’India ti aiuta a riflettere, a mettere insieme tanti valori a tante idee e progetti concreti, perché si cerchi sempre di essere tutto, tranne che pacifisti da salotto.
Si narra che in Afghanistan, i bambini, prima della guerra che ha disintegrato e continua a dilaniare il paese, giocassero con gli aquiloni. Al porto di Gaza, quando la Freedom Flotilla, nave carica di attivisti e aiuti umanitari, riuscì ad approdare, un bambino palestinese si gettò in mare, con un mazzo di fiori.
I bambini dell’India invece, speziati e vivaci, sono impazziti per i nostri palloncini.
Sarà perché tutti i bambini del mondo, hanno bisogno di colore… aquiloni, fiori e palloncini. Elementi leggeri e puliti, come il loro cuore.
Sarà che questi bambini sono un po’ di tutti, non vanno dimenticati: hanno tanto amore dentro e ti fanno scoprire un forte senso di maternità.
Sarà che io quando penso all’India, non penso al dolore, ma a quel bimbetto piccino che ha giocato con me in cortile. Mentre gli altri erano dentro, lui mi ha portato un palloncino azzurro. Non ho mai visto nessuno ridere come lui. Rideva così forte, tanto era felice che gli dedicassi tempo, che quando la maestra è uscita e gli ha tolto il pallone, si è messo a piangere e mi si è gettato tra le braccia. Allora gliene ho gonfiati due di palloncini e ha ricominciato a ridere, in modo talmente tanto chiassoso, che alla fine mi sono messa a ridere anch’io.
È vero che non c’è bisogno di andare lontano, per capire. Gli stessi bambini italiani vivono condizioni drammatiche. Hanno bisogno di cure, assistenza e amore, esattamente come quelli indiani, palestinesi, afghani, siriani, africani. Ma è anche vero che a volte, vicino/lontano, conta poco. L’importante è mettersi in gioco, cogliere le storie e i sentimenti celati negli sguardi di persone diverse da noi, che però hanno qualcosa da dire, dare un senso e un seguito a certe nostre idee, costruire il nostro futuro sulla base anche di chi voce in questo mondo, purtroppo, non ne ha. Ognuno ha il suo percorso da seguire, io non mi pento né mi vanto di questo viaggio nel cuore dell’India. Lo considero invece un regalo e un grande tesoro.
I bambini indiani mi hanno insegnato e ricordato cos’è la resistenza. Sono loro i veri guerrieri della pace. Sono loro che, avendo la forza di sorridere in mezzo alla morte e avendo un desiderio insaziabile di amore, compiono una piccola e luminosa rivoluzione, ogni giorno, senza stancarsi mai.
Io li ringrazio questi bambini, che a tratti mi hanno fatto vergognare per la rassegnazione con cui a volte affronto la mia vita. E ringrazio soprattutto quel bambino con cui ho giocato per un’ora, perché era da tanto che non ridevo e non mi divertivo più così. Col cuore leggero, sporchi di polvere, i vestiti zuppi di sudore, senza parlare la stessa lingua. Dieci dita sono sufficienti per costruire una speranza e dare uno schiaffo in faccia all’indifferenza. Mi piacerebbe che quel bimbo sapesse, che la speranza, quel pomeriggio, l’ha fatta fiorire lui dentro di me.
All’India, dico solo una parola: grazie. E a tutti voi, auguro un’esperienza simile. Io ho scoperto tardi il mondo del volontariato, dei campi di lavoro estivi nei paesi poveri. Quante persone ci sono che danno una mano dove c’è bisogno, senza essere sulle prime pagine di nessun quotidiano. Viaggiano, investono la loro vita, imparano ad ascoltare e ad ascoltarsi, crescono in modo sano e senza pregiudizi per tutto ciò che è diverso da loro. È bello sporcarsi le mani, in qualunque parte del mondo. Ed è bello tornare a casa più felici di ciò che si ha. Sentirsi un po’ figli di ogni terra, in cui ci sono bambini che ti accolgono a braccia spalancate.
Quando ho pubblicato un pezzo del mio racconto di viaggio sulla mia pagina Facebook, ho ricevuto una mail privata bellissima, di un ragazzo, il cui padre ci aveva ospitato e offerto la cena in India. Mi ha colpito molto leggere che tra tutte le persone che vedeva arrivare ogni anno, le mie parole lo avessero particolarmente toccato dentro ed emozionato. Ci sono luoghi nel mondo, in cui si dà dieci e si riceve indietro tremila, in termini di amore e umanità. Esiste un dono più grande? Io credo di no. Dunque, grazie. Di nuovo. E buon viaggio!
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