Condom Lead, ‘il sesso ai tempi di Piombo Fuso’. L’intervista

“La guerra non è fatta solo di bombe e missili, ma anche di piccole grandi privazioni quotidiane”, racconta Rashid Abdelhamid, produttore di Condom Lead. Durante l’offensiva israeliana chiamata Piombo Fuso, durata ben 22 giorni e che ha causato oltre 1300 vittime, il popolo della Striscia di Gaza ha vissuto tensione, distruzione e perdita di speranza. In questo tipo di situazioni il sesso, forse il modo più essenziale che l’essere umano ha di connettersi e comunicare, viene messo in secondo piano da preoccupazioni più urgenti. Cibo, carburanti, elettricità, ricerca di una sicurezza fisica e psicologica diventano priorità assoluta. In guerra il sesso diventa una no-fly zone; l’istinto sessuale viene stravolto, il talamo viene inquinato dal pensiero di una bomba che sta per essere sganciata. In quindici minuti Condom Lead, un corto prodotto dalla Made in Palestine Project, racconta la frustrazione di una coppia privata della propria intimità. Per conoscere meglio questo progetto abbiamo scambiato qualche parola con il produttore Rashid Abdelhamid e i co-registi Arab & Tarzan.

Rashid, come nasce l’idea di raccontare Piombo Fuso in questo modo?
Noi siamo di Gaza ma il film non è ambientato nei territori della Striscia. Benché ispirato all’attacco militare israeliano, Condom Lead vuole avere ampio respiro e portata universale. Noi abbiamo vissuto la guerra e tutti hanno parlato abbondantemente – giustamente – di morte, bombe, distruzione e così via. In questi anni i giornali ci hanno letteralmente “cibato” di immagini e storie (non solo dalla Palestina, basta pensare all’Iraq e ad altri teatri di guerra) così terribili che l’uomo occidentale medio ne è rimasto assuefatto. La foto del cadavere di un bambino non scalfisce più di tanto, ormai. Abbiamo voluto quindi prendere un elemento che potesse “colpire” chiunque. Se la guerra entra nelle case e si porta via l’amore, cosa ne è degli altri diritti? Non si tratta soltanto di sesso, ma di quel senso di sicurezza e intimità che la guerra sradica brutalmente. Abbiamo ricevuto una lettera da una donna bosniaca: “Sono scioccata, perché quello che voi raccontate è la stessa cosa che ho provato io qui durante la guerra”. Se la guerra è universale, lo è anche il desiderio di amare.

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Com’è stato accolto il vostro progetto?
Abbiamo ultimato la produzione proprio in questi giorni. Il film (che, voglio sottolinearlo, è stato girato in un giorno solo) è stato inviato sia al Festival di Cannes per l’edizione 2013, sia ad altri festival cinematografici. Per quanto riguarda le reazioni del pubblico… non ce ne importa nulla! Nel film riportiamo la nostra esperienza e la nostra opinione su quanto accaduto e continua ad accadere. Queste sono le conseguenze della guerra per come l’abbiamo vissuta noi. Non è certamente un film commerciale, ce ne rendiamo conto. Si dice che un film è come un paio di pantaloni: se ti piace lo indossi, se invece è largo o troppo stretto lo togli. Ripeto, dopo l’esposizione mediatica di immagini di devastazione, abbiamo scelto di raccontare l’orrore della guerra attraverso qualcosa di universale e condiviso da ogni essere umano. Ci siamo resi conto che in Occidente alcuni rimangono più scioccati dal fatto che nella Striscia l’alcol sia vietato che dalle immagini di corpi straziati. E, a parte quest’ultima esasperazione, ci sono cose quotidiane che in guerra vengono meno. Come il non poter andare in bagno per giorni, o come il fatto che molti bambini – anche dopo la fine del conflitto – piangano continuamente. O, appunto, il non riuscire a fare l’amore con la persona che si ama. In questo contesto il sesso è ovviamente da considerarsi una metafora.

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State lavorando ad altri progetti?

Sì. In questo momento sono due i film che stiamo realizzando. Uno di questi riguarderà esclusivamente l’esperienza della guerra a Gaza, l’altro sarà invece incentrato sulla difficile condizione di chi realizza film nel mondo arabo.

 


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