I morti causati in poco più di 10 anni dagli attacchi dei droni statunitensi sarebbero più di 5.000. Sono numeri che non possono lasciare indifferenti e che nascondono una scomoda verità: quella dell’utilizzo degli aerei a pilotaggio remoto da parte dell’amministrazione Obama. Se pensiamo al clamore suscitato dalle 3.000 vittime delle Torri Gemelle, dovremmo stupirci di come siano invece passati inosservati i corpi senza vita lasciati in giro per il mondo dalla guerra robotica a stelle e strisce. E proprio dall’11 settembre del 2001 nasce la copertura legislativa che secondo l’amministrazione americana permetterebbe l’utilizzo dei droni in terra straniera. Subito dopo l’attentato al World Trade Center, infatti, il Congresso approvò in fretta e furia l’Authorization for the use of military force against terrorists Act, che concesse al Presidente Bush il potere di mettere in campo azioni preventive per evitare ulteriori attacchi agli Stati Uniti. E per “azioni” si intendono azioni militari come quelle dei droni comandati a distanza.
Sono ormai molti i giornalisti e le organizzazioni umanitarie che contestano i fondamenti legislativi di questo provvedimento e che accusano il Presidente Obama di proseguire nel solco dell’amministrazione Bush: l’unica differenza starebbe nell’aver sostituito gli armamenti tradizionali e la “guerra preventiva” con i droni e i “Targeted killings”. L’argomento è sotto la lente di ingrandimento dell’Onu che lo scorso gennaio ha deciso di istituire una commissione d’inchiesta per indagare sull’uso dei droni e sulle “uccisioni mirate”, definite da Philip Alston, inviato Onu per i diritti umani, come dei veri e propri “omicidi extragiudiziali in serie basati su una licenza di uccidere priva di basi legali”.
Nati per essere utilizzati nelle missioni di sorveglianza e ricognizione, gli aerei a pilotaggio remoto nel tempo si sono sempre più caratterizzati come mezzi di attacco con la non indifferente qualità di preservare la vita dei piloti statunitensi, che li controllano da postazioni in stile videogioco. Molto più economici degli aerei da guerra tradizionali, i droni si adattano alla perfezione alla nuova strategia del Pentagono: colpire singoli target in Paesi stranieri, senza la necessità di affrontare dispendiosi conflitti. E’ per questo che entro il 2020 il governo degli Stati Uniti ha deciso di implementare del 30% la propria flotta, che al momento conta già 8.000 velivoli.
Secondo il Bureau of Investigative Journalism, una organizzazione no profit inglese che si occupa di giornalismo investigativo, i civili uccisi durante gli attacchi sarebbero circa il 15% del totale, in palese violazione del principio della distinzione tra militari e civili. Le vittime potrebbero in realtà essere sottostimate, visto che la maggior parte delle operazioni in questione avvengono negli angoli più remoti del pianeta. Luoghi in cui è molto difficile verificare le conseguenze di queste “uccisioni mirate”. Parliamo dell’Afghanistan e dei Paesi in cui negli ultimi anni si è spostata la guerra al terrorismo: Pakistan, Yemen e Somalia. E’ qui infatti che si concentrano i focolai dell’estremismo islamico, ed è qui che Al Qaeda continua a trovare terreno fertile per il suo proselitismo. Secondo molti, però, gli attacchi statunitensi hanno l’effetto contrario di soffiare su questo fuoco. Lo conferma anche l’ex Direttore del Centro antiterrorismo della CIA, Robert Grenier, secondo cui “gli attacchi dei droni in Yemen rischiano di trasformare il Paese in un porto sicuro per Al Qaeda”. Questo perché molti giovani yemeniti cominciano ad arruolarsi spinti da un senso di vendetta verso gli attacchi, più che dall’estremismo religioso.
Obama, che ha ammesso l’utilizzo dei droni per le uccisioni mirate solamente nel 2012, sembra non preoccuparsi delle critiche e la sua amministrazione ha anzi strutturato questi interventi con la creazione del “Disposition Matrix”, un database in continuo aggiornamento che individua i possibili target da colpire e le linee guida da seguire per la loro eliminazione. E i droni hanno un ruolo determinante in questo progetto, tanto che entro il 2015 l’aviazione americana dovrebbe poter contare su 400 nuovi “piloti”.
A questo punto diventa un obbligo chiedersi se il premio Nobel per la pace dato ad Obama nel 2009 “per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli” non sia stato assegnato troppo frettolosamente. E’ una sensazione che già in molti avevano avuto al momento del conferimento del premio e che la storia sembra aver confermato.
di Manuele Petri
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Americhe20 Dicembre 2024Usare l’AI per ridare un’identità a 10 milioni di schiavi afroamericani
- Centro e Sud America20 Dicembre 2024Capoeira, la ‘danza’ che preparava gli schiavi alla libertà
- Nord America19 Dicembre 2024La vita straordinaria di Elizabeth Miller, da Vogue a reporter di guerra
- Europa19 Dicembre 2024La doppia vita di Solomon Perel, nella Hitlerjugend per sopravvivere all’Olocausto