“Bombardamenti aerei indiscriminati, attacchi per motivi etnici, torture nei confronti di prigionieri e difensori dei diritti umani, repressione violenta delle manifestazioni (…)”: secondo un rapporto diffuso il 28 marzo da Amnesty International, in Darfur si sta verificando il peggiore periodo di violenza degli ultimi anni. In soli 3 mesi, si contano 500 morti e 100.000 dispersi durante gli attacchi alla popolazione civile da parte delle forze governative. La sostanziale impunità di cui godono i responsabili di questi crimini costituisce il maggiore ostacolo alla promozione dei diritti umani nella regione, situata nel Sudan occidentale. Il presidente Bashir e il leader delle sanguinarie milizie filo-governative janjaweed (Ali Kushab) girano a piede libero, sebbene siano stati condannati per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio dalla Corte Penale Internazionale. Allo stesso modo, tutti gli altri ufficiali del governo di Khartoum non pagano il prezzo legale delle loro azioni.
Unica nota positiva è l’improvvisa attenzione dell’opinione pubblica ad una tragedia che, da 10 anni, fatica a fare notizia. Infatti, anche se certe ONG del settore dedicano da sempre grande spazio alla vicenda del Darfur, la gran parte dei mass media hanno spesso adottato atteggiamenti di indifferenza o strumentalizzazione nei confronti della questione. Save Darfur, una coalizione internazionale di cui fanno parte anche Amnesty International e Genocide Watch, ha lanciato una giornata di iniziative altamente partecipate in tutto il mondo e che ha visto il contributo di varie icone dello spettacolo. Il 16 marzo, da Washington a Roma, attivisti e rifugiati sono scesi nelle piazze per fermare i bombardamenti delle forze armate sudanesi – sono un milione e mezzo gli sfollati che rischiano di morire di fame nei campi profughi in Sud Kordofan e Nilo Azzurro. Tra i manifestanti figura anche George Clooney, arrestato per poche ore (insieme al padre e ad altri due attivisti) nel corso di un sit-in di protesta davanti all’ambasciata sudanese a Washington. Subito dopo il rilascio, Clooney ha dichiarato: “Bisogna agire subito in quella zona, altrimenti si rischia il disastro”. In Italia, l’associazione Italians For Darfur ha lanciato a febbraio la campagna “Darfur 10”, il cui testimonial è proprio George Clooney. L’elemento più rumoroso della campagna è un video realizzato in collaborazione con Fiorella Mannoia, Negramaro, Tony Esposito e Monica Guerritore. Tuttavia, questa maggiore copertura mediatica arriva con innegabile ritardo.
Sono passati 10 anni dall’inizio del conflitto in Darfur, il cui impatto sulla popolazione locale è stato devastante. Questa meravigliosa regione è, dal 2003, teatro di scontri fra governo e truppe ribelli – riunite, principalmente, nel Movimento Giustizia e Uguaglianza (JEM) e nel Movimento per la Liberazione del Sudan (SLM). Le cause della decennale contesa sono molteplici e interconnesse. C’è la contrapposizione tra un centro governativo prosperoso, sviluppato sul fiume Nilo, e le zone periferiche, devastate tanto dalle catastrofi naturali quanto da precise politiche territoriali. C’è l’elemento etnico, che ha reso lecito parlare di genocidio, in particolare da parte degli USA: la locale maggioranza nera si contrappone alla minoranza araba – che è però la maggioranza nel Sudan ed è appoggiata da Khartoum. Su tutto, c’è l’oro nero: il Darfur, tra le zone a reddito pro-capite più basso di tutto il continente africano, è tuttavia un territorio ricchissimo di petrolio, evidentemente conteso ed effettivamente sfruttato dalle potenze industriali mondiali. Secondo il CDCA, infatti, dei 120 barili di greggio prodotti ogni anno in Darfur sono ben pochi quelli finalizzati al miglioramento dell’economia locale. Tuttavia, se le origini di questa lacerante guerra sono tutt’oggi confuse e oggetto di dibattito, le perdite in termini di civili e sviluppo umano sono chiare e inequivocabili. Al di là delle apparenti tregue, come l’accordo di pace del 24 febbraio 2010, stipulato a DohafraJem e Bashir, che ha dichiarato conclusa la guerra, la crisi umanitaria in Darfur è ben lontana da un’effettiva risoluzione.
In conclusione al suo rapporto, Amnesty International ha intimato al governo sudanese di porre fine agli attacchi contro i civili e ha chiesto all’Onu di monitorare adeguatamente la situazione nella regione. Alla luce di tali sistematiche violazioni della legislazione internazionale in materia di diritti umani, non resta che chiedersi cosa debba ancora accadere perché la comunità globale tributi la dovuta attenzione alla vicenda del Darfur. Una situazione in cui alla parte civile, che non gioca un ruolo attivo nella contesa, viene negata qualsiasi forma istituzionale di tutela, rispetto e considerazione.
Rossella De Falco
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